Un sogno chiamato Florida (2017) USA di Sean Baker
Le vacanze estive di Moonee, una bambina di sei anni, e dei suoi amici Scootey e Jancey trascorrono all’insegna del divertimento e della spensieratezza. Gli adulti che li circondano invece affrontano le numerose difficoltà quotidiane.
Da un lato l’estremo realismo dei personaggi, delle storie, del mondo suburbano e sottoproletario che viene raccontato, dall’altro immagini di estrema bellezza e rigore, la composizione ossessiva dell’inquadratura in un mix di geometrie ed emozioni: questo è il cinema di Sean Baker. Regista, sceneggiatore, montatore, Baker costruisce un piccolo gioiello indipendente con l’appoggio di un attore come Dafoe (bravissimo nel ruolo del manager della struttura) e di uno sfondo solo apparentemente fiabesco.
Siamo ad un passo da Disneyworld. Dove turisti e famiglie vivono un sogno e una vacanza, molte persone sbarcano il lunario con grande difficoltà e sacrifricio. Tutti i luoghi sono dipinti e apparentemente gioiosi, ma in realtà dietro la facciata luminosa e imbellettata vi è un mondo di infelicità e dolore, un’infanzia negata e un futuro già scritto.
Baker si conferma regista di livello, pur con diverse pause didascaliche che appesantiscono il portato finale dell’opera. Ispirato osservatore della società, firma originale del nuovo cinema americano, si conferma come voce fuori dal coro e autore a tutto tondo.
L’estate dei piccoli protagonisti scorre nel divertimento che avvertiamo come inevitabile ma assolutamente sbagliato: il fallimento di una società che abbandona i più indifesi e li condanna alla sconfitta ancora prima che possano comprendere il mondo. Il finale, girato di nascosto con un iPhone 6 all’interno del Walt Disney World, si prende gioco della fiaba e riesce con una virata poetica improvvisa e beffarda a darci il senso della sconfitta in una straordinaria congerie di sentimenti che combattono tra loro.