Steve Jobs (2015) USA di Danny Boyle
Il personaggio è tra i più controversi: amato da molti alla stregua di un santone, odiato da altri per la sua strategia, ha rappresentato comunque un pezzo della storia contemporanea del digitale. Per parlare di lui in modo diverso, con un taglio potente e obliquo non ci poteva essere autore migliore di Aaron Sorkin, grandissimo inventore di serie come The West Wing e Newsroom, ma anche enorme sceneggiatore come dimostrato in The social network dove ha messo sotto la lente di ingrandimento l’altro eroe di internet, Zuckerberg.
Sorkin sceglie di incastonare Jobs durante tre differenti presentazioni dei suoi modelli di computer, mostrando le contraddizioni dell’uomo, le sue manie e fissazioni, la sua incapacità di comunicare con gli altri, ma anche fornendogli un’aura di invincibilità che lo raffigura come un profeta moderno, capace di avere visioni oltre la normale comprensione degli altri esseri umani.
Ritmo serrato, dialoghi stringenti ma di straordinaria efficacia e attori eccellenti sono la formula di un film ottimo per fattura e costruzione anche se poco evoluto nella costruzione scenica. Il lavoro testuale è infatti talmente sovrabbondante che Boyle ne sembra subire il fascino affidandosi esclusivamente alla parola e limitando il suo intervento, quasi arrendendosi ad una sorta di teatro filmato.
Bravissimi sia Fassbender che la Winslet ma anche gli interpreti secondari sono di notevole impatto. Il finale incrina leggermente l’aura di sicurezza del personaggio (Sorkin ha accuratamente evitato di parlare della fine, dei suoi ultimi mesi) ma non toglie forza alla sua vicenda imprenditoriale che, per tanti aspetti, impressiona. Se proprio si vuol parlare di difetti, si può dire che il film è poco affamato e poco pazzo, ma certamente efficace.