Poetry (KOR) di Lee Chang-dong
Yang Mi-ja è una anziana badante con un principio di Alzheimer. Vive con il nipote affidatole dalla figlia trasferitasi per motivi di lavoro. Un giorno scopre che il nipote, insieme a 5 amici, ha violentato per mesi una compagna di scuola portandola al suicidio. I genitori degli amici hanno intenzione di corrompere la madre della ragazza affinché non faccia parola con la polizia delle violenze subite dalla figlia e chiedono che anche Mi-ja versi la sua parte, che però l’anziana badante non possiede.
Premio per la sceneggiatura a Cannes 2010, Poetry segue la vicenda umana della donna senza inutili orpelli, con un tono neorealista in cui la realtà si dimostra distruttiva e snaturata. Il nipote apatico, anaffettivo è simbolo di una umanità spenta, egoista, ripiegata in sè come i 5 genitori che, pur consapevoli dell’orribile gesto compiuto dai ragazzi, cercano comunque di salvarli. A questo Mi-Ja può solo opporre la poesia che le permette di sublimare la sua misera condizione. L’ispirazione in un fiore, in un paesaggio, il lirismo che ognuno di noi può trovare nell’esistenza, è ciò che vale la pena vivere, dimenticando (simbolicamente la sua malattia le farà da scudo nel futuro) quanto si è sbagliato, anche per eccesso di affetto.
Il regista, ex ministro della cultura in patria, non cerca l’emozione facile, non utilizza furbescamente scene madri, ma si affida al talento dell’attrice per descrivere il senso dell’impotenza e il vuoto delle diverse solitudini che si incontrano grazie ad un espressione, ad un verso che finalmente libererà il cuore della protagonista.