di Giovanni Scolari
MARIO CAMERINI: LA VITA E IL REGISTA (Roma, 1895 – Gardone Riviera, Brescia, 1981)
Lavora per il cinema dal 1913 come sceneggiatore. Dopo l’esordio nella regia con Walli (1923), si impone all’attenzione del pubblico e della critica con alcuni film muti fra cui Kiff Tebbi (1928) e soprattutto Rotaie (1929), una drammatica storia d’amore. È solo con l’avvento del sonoro, però, ch’egli individua la vena più autentica, dando vita a commedie leggere e levigate, a metà fra sentimento e comicità: il suo tocco lo farà paragonare a Lubitsch, dal quale lo divide però la predilezione per storie di ambientazione popolare e piccolo-borghese. L’enorme successo de “Gli uomini, che mascalzoni…” (1932) spalanca la carriera di attore cinematografico a Vittorio De Sica, imponendo Camerini definitivamente. Nella sua “Storia del cinema italiano”, Lizzani lo definisce acutamente “il grande confessore della piccola borghesia italiana dolcemente addormentata sotto il ventennio”; assieme a Blasetti il più importante regista dell’epoca.
Camerini svaria anche nella farsa vivace (Il cappello a tre punte, con Eduardo e Peppino De Filippo) e nella retorica di regime (Il grande appello, sulle conquiste africane del fascismo). I successivi “Darò un milione” (1935), “Ma non è una cosa seria” (1936) , “Il signor Max” (1937), “Grandi magazzini” (1939) lo riportano ai temi più cari, ovvero il confronto tra i valori degli onesti lavoratori e lafatuità delle classi alte: basati su sceneggiature impeccabili (delle quali s’occupava in prima persona) ed attori perfetti, su tutti, il duo De Sica-Noris. Quest’ultima, russa di origine, diventò, in quegli anni, moglie del regista. Essi costituiscono gli esempi certo più convincenti del filone dei “telefoni bianchi”. La carriera di Camerini proseguirà ancora a lungo, con ottimi riscontri di pubblico: ma i titoli per i quali egli resta nella storia della cinematografia indigena sono appunto quelli della “pentalogia piccolo-borghese” degli anni Trenta, nei quali seppe dar voce e gesti alle aspirazioni, ai sogni di un’Italia piccina ed appartata. Negli anni Cinquanta continua a dirigere commedie romantiche e film d’avventura. La sua ultima opera è del 1972: un episodio della serie di Don Camillo (Don Camillo e i giovani d’oggi).
IL FILM
La produzione del film appartiene alla Cines e deve molto all’intervento del direttore Emilio Cecchi che portò alla casa produttrice personaggi di grande spessore. La sceneggiatura è opera dello stesso Camerini (presente in tutte le fasi delle sue opere) insieme a De Benedetti ed al giovane Mario Soldati. La musica è di C.A. Bixio (autore di famosissime canzoni come Mamma, Violino Tzigano, Tango della capinera). La melodia più famosa è PARLAMI D’AMORE MARIÙ scritta proprio per De Sica.
Gli attori principali sono Lya Franca, nota praticamente solo per questo film poiché si è ritirata quasi subito dalle scene, e Vittorio De Sica. I suoi capelli impomatati con quel taglio particolare facevano già moda tra gli uomini nel periodo. Infatti, il presidente della Cines dell’epoca (Toeplitz) non voleva svilirlo con un ruolo da operaio per timore della reazione del pubblico.
Camerini era un regista ormai affermato e disponeva del final cut sui suoi film. Tuttavia, per maggiore sicurezza, li girava in modo tale che fosse indispensabile la sua presenza al montaggio per ricostruire la scena. Gli uomini che mascalzoni viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. L’afascismo del film fu evidenziato solo dalla stampa estera. La critica italiana coglie, invece, la ricerca di un realismo autentico e si esprime in modo convinto: “È la prima volta che vediamo Milano sullo schermo: ebbene, chi poteva supporre che fosse così fotogenica?”. Il successo crea un modello vincente per il cinema di quegli anni. L’esigenza di servirsi di spazi reali per rendere più immediati i processi di identificazione mostra che Camerini ha imboccato una strada realista, esplorando la geografia degli spazi urbani e mentali, gli orizzonti dei desideri di gruppo.
Il cinema era la forma d’intrattenimento più famosa durante il ventennio e agli inizi degli anni ‘30 era sempre più popolare. Il fascismo credeva nella forza di suggestione del cinema. In un paese con altissima percentuale di analfabeti, l’immagine poteva avere un impatto molte volte superiore. Da un lato si puntò, quindi, sul cinema di propaganda basato su eroi intrepidi che segnavano la storia e portavano avanti messaggi tipicamente fascisti con tratti mussoliniani, da cui veniva copiata la retorica, la postura, l’atteggiamento messianico. L’altra corrente era quella della commedia con due sottodivisioni: i “telefoni bianchi”, commedie frivole con storie romantiche e improbabili, interni e abitudini alto borghesi, esibizione del lusso. La seconda apparteneva ad un genere più realista, più “popolare” che aveva il suo capostipite in Camerini.
NOTE CINEMATOGRAFICHE
L’apertura è sul Duomo, simbolo della milanesità. Camerini indugia sulle vie di Milano, mostrandone il volto moderno, come metafora del momento di ristrutturazione in atto nel capitalismo italiano. Il viaggio in macchina serve per conoscere la trasformazione. A completare lo sguardo sulla metamorfosi industriale c’è l’ambientazione fieristica. Le immagini, splendide, parlano di macchinari, dell’operosità di una nazione emergente. La Fiera diventa, così, l’espressione dell’Italia falsamente unificata dal fascismo. Infatti, ironicamente De Sica abbatte, durante l’incidente stradale, un cartello della Fiera del Levante, distruggendo con esso questo mito. Tutto l’insieme deve fornire l’immagine del progresso che il fascismo ha costruito (siamo nel decimo anno del regime). Ecco l’abbondare di cartelloni pubblicitari, di luoghi di consumo, pur in presenza di una regressione nella capacità di acquisto degli italiani. Si tratta di uno sguardo sui desideri piccoli borghesi della nostra penisola. E quali sono? La macchina, lo stipendio di mille lire al mese, i piccoli lussi come i profumi, anche se De Sica, profumatosi eccessivamente per riuscire a parlare di più con Mariuccia, viene scambiato per un omosessuale da un disgustato signore.
Invece, i nostri protagonisti sono dei semplici popolani. Mariuccia lavora in un negozio come commessa e vive con il papà taxista e vedovo. De Sica è meccanico e autista. Quando si incontrano lei va in tram, lui la segue in bicicletta. Vivono in case modeste, arrivano alla fine del mese concedendosi pochi, semplici passatempi. Per loro è difficile anche la semplice vacanza. Mariuccia non è mai andata sui laghi, Bruno l’ha fatto solo durante il lavoro. Saranno i dopolavoro fascisti ad organizzare le prime gite fuori porta immortalate da Blasetti in Quattro passi fra le nuvole (1942). Possono andare alla fiera, mangiare un gelato, andare in una pista di autoscontri, ante litteram, fumarsi una sigaretta, nient’altro.
In realtà la pellicola esprime una critica implicita e sotterranea delle divisioni sociali che il fascismo perpetuava. Le donne lavorano ma solo fino al matrimonio quando si devono dedicare al marito e ai figli. Le convenzioni irrigidiscono il rapporto tra i due. Mariuccia accetta la corte dei ricchi borghesi per far ingelosire Bruno, oppure per salvargli il posto di lavoro. Concede solo un bacio al suo innamorato e tutto ciò avviene fuori scena proprio per diversificare la brava ragazza (timorata di Dio e dei retaggi familiari) dalle sue colleghe, pronte a concedersi a ricchi borghesi per la bramosia del denaro, per garantirsi un futuro. Eppure, lo si capisce bene, saranno sfruttate da questi uomini. La vera vita sta nella semplicità. Il padre di Mariuccia parla il dialetto milanese, come molti altri personaggi appartenenti al popolo (tratto comune con PICCOLO MONDO ANTICO di Soldati). E ancora una volta il canto popolare funge da cesura nelle scene. La musica resta un tratto fondamentale del carattere degli italiani.
NOTE STORICHE
Milano superava il milione di abitanti agli albori degli anni ’30 ed aveva completamente cambiato immagine dopo l’avvento di Mussolini al potere. D’altro canto, non poteva essere che così poiché essa era la città del “fascismo primogenito”, il luogo dove il movimento aveva preso vita. L’acciottolato dell’ottocento era stato sostituito dalla nuova pavimentazione. Erano stati rifatti anche i marciapiedi. In preda ad una frenesia ammodernatrice, furono costruiti la nuova stazione centrale, il palazzo di giustizia, la nuova sede dell’Ospedale Maggiore, la città degli studi e tanti altri edifici.
Mussolini lanciò anche una serie di infrastrutture per affermare la forza, la supremazia del proprio governo, rispetto ai deboli e spenti governi democratici. Tra le altre cose partirono i cantieri per le autostrade. La prima ad essere costruita fu la Milano Laghi. Il primo tronco fu completato nel 1924. Alla fine ci saranno 84 km ad una sola corsia per senso di marcia. Il traffico rimaneva però limitato poiché poche erano le macchine in circolazione. L’Italia del 1926 era 22.ma come diffusione delle auto (110 mila contro il milione dell’Inghilterra). Le biciclette (vero mezzo di locomozione popolare) erano tantissime, oltre due milioni e mezzo nel 1925.
La situazione nel 1932 non era tanto migliorata. In quell’anno da Torino a Brescia si calcolava che transitassero 500 macchine al giorno, il 30% erano autocarri. Eppure nello stesso anno, per il decennale fascista, la Fiat lanciò la Balilla 508 a 4 marce, velocità fino a 85 km. Considerata un’utilitaria, in realtà costava 10.800 lire, ovvero lo stipendio di un anno di buon impiegato di banca. I modelli sportivi e di gran lusso partivano dalle 40.000 lire. Nel 1936 usciva la Topolino; costava comunque 8.900 lire.
La Milano Laghi è un importante frutto del fascismo, ma è l’unico tratto autostradale promesso ad essere stato completato. La Torino-Venezia, ad esempio, mancava di alcuni tronchi. Quasi tutte le autostrade, inoltre, furono costruite nel centro nord, lasciando il sud isolato, monco di necessarie infrastrutture. Le autostrade avevano una sola corsia ed erano vietate ai carri a trazione animale, ai ciclisti e ai pedoni. Sembravano avveniristiche ma erano poco sicure, con protezioni inesistenti, cartelloni pubblicitari e segnalazioni precarie. Gli incidenti, perciò, erano tantissimi anche per l’inesperienza, i guasti e il mancato rispetto delle norme di sicurezza. I carretti, le biciclette, le motociclette sterzavano senza alcuna segnalazione in un caos che portava spesso ad esiti mortali. Le strade ordinarie, poi, erano piene di buche, senza illuminazione e senza telefono di soccorso. A Milano nel 1936 ci furono ben 5.414 incidenti con 23 morti e 2760 feriti. L’alternativa per i più ricchi erano i Taxi. A Milano erano 1600 colorati di un rosso carminio particolarmente attraente. Gli autisti indossavano una divisa. Per il popolo restava la bicicletta, come già detto, il tram ed il treno. Quest’ultimo era l’unico mezzo di trasporto di massa, nonostante i prezzi fossero proibitivi: rispetto ai giorni nostri costavano 3 o 4 volte di più.
L’Italia degli anni 30 aspirava al rango di potenza imperiale, ma nella vita di ogni giorno, nei divertimenti poveri e nei vestiti consunti della domenica restava un paese arretrato e provinciale. Gli italiani si divertivano con le canzonette. La musica di derivazione straniera era, ovviamente, contrastata, ma nulla si pote’ fare per evitare le contaminazioni jazz e swing inserite nelle più svariate melodie. Lo stile di vita fascista era sobrio, patriarcale e remissivo.
Il controllo nelle fabbriche era ferreo. Non c’era possibilità di protestare, di contestare alcuna decisione. I salari reali, in relazione al costo della vita precipitarono senza l’ombra di uno sciopero. Un operaio lombardo con moglie e tre figli percepiva 6.495 lire all’anno, nel 1935 scese a 4.495. Il salario medio di un operaio era di 3/400 lire al mese; un impiegato di buon livello poteva guadagnare al massimo 850 lire, uno chauffeur con mansioni di meccanico e cameriere poteva prendere anche 800 lire al mese. In compenso il costo delle materie prime cresceva senza sosta. Il consumo di carne procapite era di 9 kg all’anno nel 1938, nello stesso anno in Inghilterra se ne consumavano 63, in Francia 59.
Il controllo si estese anche alla famiglia ed ecco che il cinema diventa centrale per la capacità di proporre (e imporre) modelli sociali, usi, comportamenti. Le case dovevano mostrare un arredamento sobrio e adeguato al livello sociale. L’abbigliamento riflette il ruolo che una persona assume nella famiglia. La donna doveva essere remissiva, sotto la protezione dell’uomo, le sue uniche aspirazioni dovevano essere il marito e la famiglia. La moda adegua l’abbigliamento a questo archetipo: i vestiti cadono morbidi sul seno, si stringono ai fianchi, esaltano la linea. Le acconciature sono vaporose e arricciate, a differenza del capelli alla maschietta degli anni ‘20. I pantaloni sono visti male, condannati dalla chiesa ed osteggiati dal regime. Ricompaiono i guanti, i cappelli con le velette, le mantelline, i volant. L’uomo del popolo, invece, indossava la giacca di fustagno ad esaltare le spalle larghe del lavoratore serio e operoso, sotto cui la famiglia si può rifugiare.
La famiglia era il sogno a cui si sacrificava tutto. Chi non voleva saperne di sposarsi subiva le conseguenze della riprovazione fascista che non era solo a parole. Tasse e restrizioni rendevano difficile la vita dello scapolo. Il regime esaltava le famiglie che prolificavano copiosamente consegnando al mondo i futuri soldati. Nonostante questo, il livello delle nascite continuava a diminuire.