Le registe che hanno fatto grande il cinema

Dorothy Arzner (San Francisco, 3 gennaio 1897 – La Quinta, 1º ottobre 1979) Nata a San Francisco nel 1897, Dorothy Arzner crebbe a Los Angeles, dove suo padre era proprietario di un ristorante frequentato dalle celebrità di Hollywood. Finita la prima guerra mondiale, ritorna all’università ma, dopo aver visitato uno studio cinematografico, decide di intraprendere la carriera di regista. Il suo primo lavoro in uno studio cinematografico è quello di stenografa. Ben presto Dorothy fa carriera: comincia a scrivere sceneggiature e, dopo soli sei mesi di lavoro, viene promossa a montatrice, imparando il mestiere in breve tempo. Il suo primo lavoro, per cui riceve molte lodi, è il montaggio di Sangue e arena, di cui divide la regia con Fred Niblo, ma senza essere accreditata. Impressionato dalla sua tecnica, il regista James Cruze la utilizza sia come sceneggiatrice che come montatrice per i suoi film. La gran mole di lavoro che Dorothy svolge in oltre cinquanta pellicole per la Paramount con ottimi risultati qualitativi, la portano a richiedere di passare alla regia. Dopo le sue minacce di passare alla concorrente Columbia Pictures, la Paramount cede alle sue richieste e le affida, nel 1927, la regia di Fashions for Women.

Ida Lupino (Londra, 4 febbraio 1918 – Burbank, 3 agosto 1995) Come attrice lavorò dapprima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti dove, nel corso degli anni Quaranta, fu apprezzata interprete di numerosi noir. Considerata l’unica donna regista in grado di lavorare nel clima repressivo configuratosi a Hollywood negli anni Cinquanta, si cimentò nel genere melodrammatico, ma discostandosi dai modelli tradizionali e concentrando la sua attenzione su temi controversi, quali la bigamia, la malattia fisica, la maternità al di fuori del matrimonio. Dotata di un caustico senso dell’umorismo e di una personalità irriverente, il suo atteggiamento verso le conquiste di libertà e indipendenza femminili talvolta fu accusato di conformismo tradizionalista, mentre in realtà si espresse con grande chiarezza nell’amara saggezza cui giungono le eroine dei suoi film, tanto che le sue opere sono state riesaminate in quest’ottica nell’ambito degli studi del movimento femminista. Nel 1949, con il marito C. Young e Anson Bond fondò la Emerald Production; la prima e unica produzione della società fu Not wanted (1949; Non abbandonarmi), film in cui subentrò, non accreditata, a Elmer Clifton nella regia, dopo aver scritto con Paul Jarrico la sceneggiatura, basata sulla storia di una giovane donna che mette al mondo un figlio illegittimo ed è costretta ad affidarlo a un istituto. Fu con la nuova società nata dopo la separazione da Bond, The Filmaker, che realizzò i film successivi, spesso condividendo con il marito la produzione o la sceneggiatura. Anche in Outrage (1950; La preda della belva), che segnò il suo debutto ufficiale come regista, riuscì a dare vita a un dramma sociale rigoroso e realistico che punta molto sull’interpretazione degli attori. Per raccontare il superamento del trauma di una violenza carnale, si servì dei meccanismi narrativi del noir che conferiscono uno stile classico alla scabrosa materia del film. Il tema del corpo femminile, legato a quelli dell’agonismo e della carriera, ritorna in Never fear (1950), che ha per protagonista una danzatrice in lotta con la poliomelite, e in Hard, fast, and beautiful (1951), che indaga il complesso rapporto che lega una madre a una figlia campionessa di tennis. The bigamist (1953; La grande nebbia) fu l’unico caso in cui diresse il film anche interpretandolo; si tratta di un melodramma sul tema dell’adozione che è anche una critica al modello femminile tradizionale. Il successivo The hicht-hiker (1953; La belva dell’autostrada), film d’azione teso e coinvolgente, viene per lo più considerato il suo capolavoro: qui, infatti, le figure maschili sono portatrici di istanze irrazionali e di pericolo, con un ribaltamento della prospettiva codificata del noir, che attribuiva tali valenze ai personaggi femminili.

Kathryn Bygelow (San Carlos, 27 novembre 1951) Nel 1978 girò il suo primo film, il cortometraggio Set-Up, subito accolto con interesse dai festival statunitensi ed europei. L’esordio nel lungometraggio avvenne però qualche anno più tardi con The Loveless (1983), ambientato tra i “bikers” (i motociclisti) della provincia americana degli anni cinquanta. Il desiderio di uscire dai limiti delle produzioni indipendenti e di raggiungere un pubblico più vasto indusse la Bigelow a tentare la strada delle major hollywoodiane, ma fu solo nel 1987 che riuscì a portare a termine il secondo lungometraggio, Il buio si avvicina, atipico horror contemporaneo dalle sfumature “esistenziali”. I positivi riscontri ottenuti dal film non contribuirono tuttavia ad agevolare la realizzazione dei progetti successivi: l’uscita di Blue Steel – Bersaglio mortale (1990), un thriller imperniato sulla figura di una donna-poliziotto (interpretata da Jamie Lee Curtis), si deve in gran parte all’interessamento e alla coproduzione di Oliver Stone. A proprio agio con i ritmi e le cadenze del film d’azione, nel 1991 colse un notevole successo con Point Break – Punto di rottura, vicenda ad alta tensione a base di inseguimenti e rapine in banca. La cineasta californiana diresse poi un altro thriller, questa volta co-sceneggiato e coprodotto dall’ex marito James Cameron, Strange Days (1995), un avvincente racconto fantascientifico non privo di contenuti morali. Dopo una lunga pausa, la Bigelow è tornata dietro alla macchina da presa per girare Il mistero dell’acqua (2000), insolita e raffinata pellicola interpretata da Sean Penn ed Elizabeth Hurley, seguita da K-19 (2002), claustrofobico film bellico ambientato in un sottomarino della marina sovietica e interpretato da Harrison Ford e Liam Neeson. Nel 2008 dirige The Hurt Locker, un film bellico ambientato in Iraq che segue le vicende quotidiane di un gruppo di militari statunitensi. Inizialmente poco considerato, nel corso del 2009 The Hurt Locker si è rivelato un grande successo di critica, e ha fruttato alla sua regista molti premi, tra cui, prima donna nella storia, il Premio Oscar per la miglior regia. Il film The Hurt Locker vince nelle categorie miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro, miglior montaggio.

Sofia Coppola (New York, 14 maggio 1971) È la figlia di Francis Ford Coppola, sorella del regista Roman Coppola, nipote dell’attrice Talia Shire e cugina di Nicolas Cage, Jason Schwartzman e Robert Carmine. È stata la prima donna statunitense e la terza in assoluto ad avere ottenuto una candidatura all’Oscar al miglior regista, nel 2004. Nello stesso anno ha vinto l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale. Comincia come attrice ed il suo ruolo più noto rimane quello di Mary Corleone ne Il padrino – Parte III (1990). La sua performance venne però criticata al punto da mettere quasi fine alla sua carriera di attrice. Nel 1990 si aggiudicò infatti il Razzie Award alla peggior attrice non protagonista. Passa alla; dopo il debutto con il cortometraggio Lick the Star, ha scritto e diretto diversi lungometraggi: il conturbante Il giardino delle vergini suicide (1999), il magnifico Lost in Translation – L’amore tradotto (2003), che rimane il suo miglior film, per il quale ha vinto il premio Oscar per la sceneggiatura originale e Marie Antoinette (2006). Nel 2010 presenta alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il film Somewhere, che si aggiudica il Leone d’oro. Nel 2013 scrive, produce e dirige Bling Ring, che apre la sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes.

Lina Wertmuller (Roma il 14 agosto 1928) Dotata di una sensibilità estrosa e di un tratto registico satirico e pungente, ha tentato di rinnovare la commedia all’italiana con un ostentato e spesso ridondante uso del grottesco e del surreale, riuscendo a delineare generali tendenze di costume, senza però approfondirle in una serrata analisi delle dinamiche sociali e politiche italiane. Molto amata all’estero, ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali, aggiudicandosi la Vela d’argento al Festival di Locarno con la sua opera prima, I basilischi (1963), nonché una doppia nomination all’Oscar nel 1977 con Pasqualino Settebellezze (1975) per la regia e la sceneggiatura, prima donna nella storia del premio a essere candidata come migliore regista. Dopo aver realizzato numerose regie radiofoniche e televisive (tra cui nel 1959 quella della prima edizione di Canzonissima) fece il debutto nel cinema nel 1963, quando ebbe l’opportunità di lavorare come assistente di Federico Fellini in 8 1/2. Nello stesso anno firmò la sua prima regia: I basilischi. Ritratto leggero ma venato di autenticità di un gruppo di vitelloni di un paesino del Sud, fu accolto con entusiasmo dalla critica che ne sottolineò l’eversiva forza ironica nel delineare uno spaccato della realtà italiana di allora. Si dedicò quindi alla regia televisiva della fortunata rivista musicale Il giornalino di Gian Burrasca (1964), per poi dirigere il film a episodi Questa volta parliamo di uomini (1965), con un inconsueto Nino Manfredi, diresse due musicarelli, Rita, la zanzara (1966) e Non stuzzicate la zanzara (1967), entrambi con pseudonimi inglesi. Chiusa questa parentesi, la regista riprese il filo interrotto dell’esordio firmando la sua commedia più riuscita, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) che, oltre a lanciare la fortunata coppia di attori Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, anticipò quella che sarebbe stata la sua cifra stilistica, approfondita ampiamente nei successivi lavori degli anni Settanta, da Film d’amore e d’anarchia ovvero: “Stamattina alle 10 in Via dei Fiori nella nota casa di tolleranza” (1973) a Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), da Pasqualino Settebellezze fino a La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978), ovvero un’irrinunciabile vena corrosiva, pronta a usare ogni mezzo in nome di una satira di costume a tratti solo abbozzata dove anche il messaggio politico-sociale viene assorbito dai dominanti toni sopra le righe. Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto una sostanziale conferma delle linee direttrici del cinema della W. che ha firmato Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983), in cui la stravaganza è portata all’estremo; Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1984), reazionaria commedia sull’omosessualità; Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico (1986), ancora una storia di passione primitiva; In una notte di chiaro di luna (1989), sulla fobia collettiva dell’AIDS; Io speriamo che me la cavo (1992), dal fortunato romanzo di M. D’Orta; Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica (1996), inverosimile storia di passione tra un operaio comunista e una parrucchiera leghista.

Věra Chytilová (Ostrava, 2 febbraio 1929 – Praga, 12 marzo 2014)  Pioniera del cinema ceco e rappresentante del cinema d’avanguardia, viene considerata uno dei migliori registi della Europa Orientale durante il comunismo. Bandita dal governo durante gli anni ’60, è conosciuta soprattutto per il suo film “Le margheritine” (Sedmikrásky). Il film, scritto da Ester Krumbachová, ‒ vicenda volutamente slegata di due seducenti ragazze nella Praga degli anni Sessanta, tra rock socialista, bagni nella Moldava e finti adescamenti ai danni di uomini di mezza età ‒ ruota sull’insensatezza dell’esistenza, riuscendo, sul piano formale, come una delle migliori traduzioni cinematografiche delle contemporanee poetiche dell’assurdo, tra E. Ionesco, S. Beckett, H. Pinter e V. Havel.

Agnes Varda (Ixelles, 30 maggio 1928) Nata in Belgio, si trasferisce a Parigi dove lavora come fotografa e incontra il regista Jacques Demy, suo futuro marito. Nel 1954, con mezzi modesti, gira La pointe courte con Philippe Noiret come interprete e con il montaggio di Alain Resnais. È un film che ha lasciato il segno perché porta un soffio di libertà nel cinema francese. Nel 1961 gira il suo secondo lungometraggio: Cleo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7), un film su due ore della vita di una cantante, che dopo un passato sregolato aspetta di conoscere i risultati delle analisi per sapere se è affetta da un cancro. Nel 1985 è la volta di Senza tetto né legge (Sans toit ni loi), il film che mette in luce la giovane Sandrine Bonnaire e che si aggiudica il Leone d’oro alla Mostra cinematografica di Venezia. È un film di grande impatto e potenza. Insieme a Cleo si tratta della sua più grande prova registica. Nel 1987 filma Jane Birkin che, appena superati i quarant’anni, vive un brutto momento dal punto di vista professionale. Da questo incontro nasce Jane B. par Agnès Varda, un film a metà tra documentario e fiction che in Italia viene distribuito in lingua originale sottotitolato. Durante la lavorazione la Birkin ha l’idea che porterà l’anno dopo la Varda a girare Kung-Fu Master, sempre con la Birkin come protagonista. Dopo la morte del marito Jacques Demy avvenuta nel 1990, la Varda gira tre film in suo onore Garage Demy, Les demoiselles ont eu 25 ans e L’univers de Jacques Demy.


Mira Nair (Bhubaneshwar, 15 ottobre 1957) A 19 anni vince una borsa di studio ad Harvard e parte per gli Stati Uniti dove matura la decisione di dedicarsi al cinema. Il suo primo lungometraggio è uno strepitoso successo. Salaam Bombay! vince la camera d’oro e il premio del pubblico al Festival di Cannes nel 1988 e riceve una nomination agli Oscar. Il film seguente, Mississippi Masala, una storia d’amore tra una giovane indiana e un afro-americano, vince tre premi alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1991. Nel 1995, in La famiglia Perez, con Anjelica Huston e Alfred Molina, descrive la vita dei rifugiati cubani a Miami. Nel 2001 il suo film Monsoon Wedding – Matrimonio indiano, storia di un caotico matrimonio indiano panjabi, è un grande successo e vince un Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Nel 2004 il suo film La fiera della vanità (Vanity Fair) fa parte della selezione ufficiale della 61ª Mostra di Venezia. Temi centrali della sua filmografia sono la descrizione sociologica della propria nazione e la difficoltà dell’integrazione. L’ultimo suo film Il fondamentalista riluttante ha cercato di capire, lei induista, i motivi del terrorismo islamico.

Samira Makhmalbaf (Teheran, 15 febbraio 1980) A sette anni ha recitato nel film del padre Mohsen Makhmalbaf Il ciclista. Ha diretto all’età di 17 anni due produzioni video, per poi dirigere il film La mela diventando la più giovane del mondo a partecipare alla sezione ufficiale del Festival di Cannes, nel 1998, vincendo pure il premio della giuria. Nel 1999, Samira completa Lavagne e per la seconda volta partecipa alla sezione in gara a Cannes, vincendo nuovamente il premio della giuria. Successivamente ha diretto un altro film mentre viveva a Kabul, dal titolo Alle cinque della sera. Il suo successivo lavoro, Two-Legged Horse, basato su un lavoro letterario del padre Mohsen, è stato girato in Afghanistan. La lista non è esaustiva e ci sono altre che potrebbero essere citate. Rappresenta una leva di registe coraggiose che nel mondo asfittico e repressivo dell’Islam teocratico cerca di emergere, raccontando la vita e la condizione delle donne in questi regimi. Sarebbe da citare anche Haifaa Al Mansour, prima regista araba, ma la sua produzione è limitata ad un solo film La bicicletta verde. Resta, da entrambe, una lezione non comune di etica e coraggio.

Jane Campion (Wellington, 30 aprile 1954) Nel 1990 il suo terzo lungometraggio, Un angelo alla mia tavola, sulla vita della scrittrice Janet Frame,  ha vinto il Leone d’Argentoalla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Del 1993 il suo film più noto: Lezioni di piano, con il quale ha vinto il Premio Oscar (come migliore sceneggiatura originale) e la Palma d’oro al Festival di Cannes. Campion è una regista di grande individualità, i suoi lavori presentano spesso donne oppresse o in condizioni sfavorevoli. Ciò nonostante, la regista è stata attaccata da una parte della critica femminista perché spesso nei suoi film la protagonista trova conforto in un amante autoritario. I film di Campion sono ricchi di riferimenti colti alla letteratura, alla musica e al cinema. L’originalità dei temi e la complessità dello stile fanno di Campion una delle maggiori registe cinematografiche contemporanee. Dopo alcuni insuccessi, ha avuto un grande riscontro la sua Fiction Top of the lake, serie noir ambientata nei paesaggi incontaminati della Nuova Zelanda.

Chantal Akerman (Bruxelles, 6 giugno 1950) Nel 1971 iniziò a frequentare assiduamente l’Anthology Film Archives di New York scoprendo il New American Cinema e avvicinandosi agli autori più sperimentali come Andy Warhol e Stan Brakhage. Stimolata da questo nuovo modo di fare e pensare il cinema, nel 1974 girò il suo primo lungometraggio, Je, tu, il, elle. Nel 1975 realizzò Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, la minuziosa descrizione della disperata ripetitività della vita di una casalinga dedita occasionalmente alla prostituzione per mantenere se stessa ed il figlio adolescente.  “Le Monde” ed il “New York Times”  lo classificarono come “il più grande capolavoro femminile della storia del cinema”. La Akerman raggiunse così la consacrazione ed il riconoscimento internazionale, tanto che Gus Van Sant e Todd Haynes hanno affermato che il loro lavoro è stato molto influenzato da Jeanne Dielman. Nel 1976 tornò a New York per la realizzazione di News from home, poi ancora nel 1988 per Histoires d’Amérique e nel 1996 per la commedia romantica Un divano a New York, con William Hurt e Juliette Binoche. Nel 2006 Chantal Akerman trasformò un documentario su Israele che le era stato commissionato in un progetto più personale, Là-bas. Girato a Tel-Aviv e montato a Parigi, il film è una serie di inquadrature fisse della Akerman nel suo appartamento e di ciò che si vede dalle finestre, narrato dalla voce fuori campo della regista stessa che commenta l’esperienza lasciandosi andare a digressioni sull’isolamento, la solitudine, il tempo e l’ebraicismo.

Germaine Dulac, pseudonimo di Germaine Saisset-Schneider (Amiens, 1882 – Parigi, 1942) Partecipò al movimento d’avanguardia di cui è stata una dei principali esponenti, pronunciandosi contro il cineromanzo e per il più rigoroso visualismo. I suoi principi ideologici sono contenuti nel saggio Le estetiche, gli ostacoli, la cingrafia integrale, pubblicato nel 1927 sulla rivista L’Art Cinématographique. Tra i suoi film ricordiamo La festa spagnola, del 1919 e La sorridente signora Beudet, del 1923. La Dulac fu anche direttrice di cinegiornali e difese con scritti teorici l’importanza di questo genere.

Liliana Cavani (Carpi 12 gennaio 1933) Nel 1966 con Francesco d’Assisi realizza il suo primo film che è anche il primo prodotto dalla RAI. Nel 1968 firma il nuovo film Galileo (in concorso al Festival di Venezia) con il quale mette a fuoco il tema del conflitto tra scienza e religione. Nel 1969 gira I cannibali, rivisitazione in chiave moderna dell’Antigone di Sofocle che esprime con un linguaggio particolare il conflitto tra pietà e legge radicato nel contesto sociale e politico di quegli anni. Nel 1972 realizza Milarepa, testo mistico dell’XI secolo. Nel 1973 con Il portiere di notte la Cavani si concentra sul mistero del rapporto tra vittima e carnefice. Nel 1977 la regista termina Al di là del bene e del male; il film racconta le ultime vicende della vita di Nietzsche. Nel 1981 firma la regia de La pelle con Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Burt Lancaster. Con Oltre la porta del 1982 la Cavani si avvale del solito cast all-stars, ma costituito solo da attori e attrici europee; le ambigue perversioni sessuali in Interno berlinese non conquistano il favore della critica e nemmeno Francesco con Mickey Rourke ottiene il consenso sperato. Con il film Il gioco di Ripley (2002), film con John Malkovich tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, la regista torna ad avere il successo internazionale. Ha girato poi alcune fiction televisive come De Gasperi, l’uomo della speranza e Einstein.

Margarethe Von Trotta (Berlino 21 febbraio 1942) Il suo è stato, agli esordi, un cinema politicamente impegnato, che ha affrontato temi di attualità privilegiando  la costruzione dei personaggi femminili, attraverso l’analisi delle loro motivazioni psicologiche profonde. Anche per questo ha stabilito un rapporto preferenziale con le sue attrici (in particolare Jutta Lampe e Barbara Sukowa). Con Die bleierne Zeit (Anni di piombo), premiato nel 1981 con il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, si è aggiudicata anche il David di Donatello assegnato al miglior regista straniero. Come attrice, prese parte a diversi film di Fassbinder. Collaborò anche con Volker Schlöndorff (suo marito dal 1971), in particolare per la regia di Il caso Katharina Blum (1975). Tre anni più tardi realizzò, ispirandosi a una vicenda reale, Das zweite Erwachen der Christa Klages (1978), storia di una donna che rapina una banca per salvare il giardino d’infanzia in cui lavora, e affrontò il dissidio tra regole sociali e felicità individuale in Sorelle ‒ L’equilibrio della felicità (1979), dove il conflitto tra due sorelle, l’una inserita nel sistema, l’altra incapace di accettarlo, mette in crisi molte certezze. Uno schema analogo si ritrova in Anni di Piombo, altro film che trae spunto dalle cronache di quegli anni ‒ ispirandosi alla storia di Gudrun Ensslin, militante della RAF morta in carcere nel 1977 e di sua sorella Christiane ‒ per rappresentare atteggiamenti opposti rispetto alla lotta armata, l’uno di convinta adesione, l’altro di condanna o quanto meno di disapprovazione, attraverso una costruzione lucida e un asciutto impiego del flashback funzionale alla narrazione. Raggiunto il successo internazionale, da Lucida follia (1983) ha concentrato la sua attenzione su alcuni ‘passaggi obbligati’ della rivendicazione femminista. Così, dopo aver realizzato Rosa Luxemburg (1986), si è ispirata liberamente alle Tre sorelle čechoviane per Paura e amore (1988), che affronta il tema della sconfitta ideale ed esistenziale. Dedicatasi per diversi anni alla televisione, nel 2003 la regista è tornata al cinema per dirigere Rosenstrasse, rievocazione di un episodio della Seconda guerra mondiale di cui furono protagoniste le mogli ariane di ebrei tedeschi.

Kira Muratova (Soroca, 5 novembre 1934), moldava naturalizzata ucraina.   Nel 1954 s’iscrisse al VGIK, l’università sovietica di cinematografia, dove studiò regia con Sergej Gerasimov. Si diplomò nel 1959. Nel 1962 sposò il regista ucraino Aleksandr Muratov e si stabilì a Odessa. Il primo lungometraggio, Il nostro onesto pane, fu diretto nel 1964 con il marito. Ebbe successivamente seri problemi con la censura. Brevi incontri del 1968, Lunghi addii del 1971, Alla scoperta della vita del 1979 vennero ritirati, mentre Tra le pietre grigie del 1983 fu rimontato e, non essendo stato più riconosciuto dall’autrice, fu attribuito a un tale Ivan Sidorov. I problemi si risolsero dapprima con l’inizio della perestrojka, e successivamente con la fine della stessa Unione Sovietica. Nel 1990 fu membro della giuria al Festival di Venezia e, nello stesso anno, vinse l’Orso d’argento al Festival di Berlino con il film Sindrome astenica.

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