La tigre bianca (2021) USA/IND di Ramin Bahrani
Il figlio di un ricco signore è appena tornato dall’America ed è alla ricerca di un autista. Balram, nato in una casta inferiore, deve accettare ogni cosa e umiliazione fino a che decide di cambiare, ribellarsi alla servitù.
Tratto dal romanzo omonimo di Aravind Adiga, Bahrani mette in scena l’India contemporanea senza veli. Sparita ogni traccia di esotismo e mistico, resta solo il ritratto di una società corrotta e violenta, dove l’appartenenza sociale decide fin dall’inizio il destino di una persona. Non ci sono più le caste, ma tutto si è cristallizzato rendendo la vita impossibile ai diseredati.
E i poveri sono brutti, sporchi e cattivi come nel mitico film di Scola che ritraeva il sottoproletariato romano negli anni settanta. Per loro non c’è scelta. Per sopravvivere è necessario abbattere gli altri. Solo Balram osa quello che gli altri neppure si sognano di fare: sovvertire l’ordine prendendosela con i potenti e i ricchi. Non esiste altro mezzo, suggerisce il film, per cambiare il proprio destino, mutare il proprio futuro altrimenti già scritto.
L’impietosa descrizione dell’India è supportata da una colonna sonora vivace e da una sceneggiatura brillante, scritta dal regista stesso, che ha ricevuto una nomination all’Oscar. La voce fuori campo diventa ingombrante e sottolinea come poco funzioni nel film l’espediente narrativo della lettera al primo ministro cinese. Bahrani crea un film che funziona e colpisce.