di Gianfranco Angelucci
Fellini diceva “Non ho mai avuto intenzioni moralistiche o ironiche intitolando il film “La dolce vita”; anzi ciò che volevo veramente affermare era che la vita può essere dolce nonostante tutto”.
Sorrentino invece sembrerebbe voler raccontare ciò che “La grande bellezza”, quella di Roma, nasconde di logoro e noioso dietro il suo immutabile fascino secolare: le strade, le piazze, le facciate delle case, le terrazze che si aprono su visioni senza confronti. I titoli di coda del film, appaiono sulle immagini dei ponti ripresi con la luce a cavallo dell’alba; Luca Bigazzi, eccezionale talento fotografico, li riprende verosimilmente dal battello che scivola impercettibilmente sul Tevere: archi barocchi, marmorei, scenografici, che uniscono le due rive della Città Eterna, le sue due anime. Ed è la più bella ripresa del film, dove la bellezza appunto diviene metafora di sovrumana indifferenza.
Mastroianni nella Dolce Vita agisce completamente immerso negli scenari e nello spirito della città. Ne fa parte, si identifica, ne cerca la complicità anche negli aspetti meno gradevoli, o addirittura tragici. Via Veneto è il suo osservatorio: ufficio e teatro insieme. La sua eccitazione.
Tony Servillo, è anch’egli un cronista di rosa che ha voltato le spalle alle velleità letterarie per mancanza di talento o eccesso di pigrizia; ma al contrario di Marcello guarda e giudica, con atteggiamento blasé, da gagà napoletano. In Via Veneto passa solitario a notte tarda, con le mani in tasca, i marciapiedi deserti, i lampioni che spandono luce d’oro, i giapponesi che mangiano in silenzio nei dehors a vetri, come acquari.
Sorrentino allude alla “Dolce Vita” di Fellini, la corteggia, la cita, come è inevitabile non solo per lui, cinefilo e cineasta devoto, ma per chiunque parli di una Roma mitica, post felliniana. L’Urbe gli è estranea, la guarda con l’occhio del meteco che non ha cittadinanza.
“La Dolce Vita” di Fellini era epocale, chiudeva un’era e ne apriva un’altra. L’Italia non sarebbe stata più la stessa, lanciata verso il consumismo, la libertà sessuale, la motorizzazione di massa, la modernità. Segnava anche la fine della Roma nostalgicamente rimpianta sia da Pasolini delle borgate, sia da Ennio Flaiano di “Un marziano a Roma”.
Le donne della “Dove Vita” erano abbaglianti, simili a dee; Anita Ekberg nella Fontana di Trevi è restata un’icona universale. Durante la conferenza stampa all’Excelsior rivela ai giornalisti eccitati che per andare a letto indossa unicamente: “Due gocce di profumo francese”.
Le donne della “Grande Bellezza” sono veneri sfiorite, Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Serena Grandi. Presenze malinconiche, mezze calzette votate al botulino, aggrovigliate nella nevrosi, nell’insoddisfazione, nel rimpianto, nella mancanza di futuro.
Nel film di Fellini ci sono striptease, travestiti, amori trasgressivi, amplessi consumati in baccanali.
Nel film di Sorrentino un’attricetta da performance, con il simbolo della falce e martello scolpito nel pelo inguinale, corre completamente nuda su una lunga pedana fino a fracassarsi la testa contro un muro e svenire per terra. E’ sospinta da una ‘vibrazione’, confida in stile new age al giornalista Jep Gambardella, che non le risparmia il suo acido scherno.
Nella Roma di Fellini c’è la ricerca di Dio, il delitto efferato, il turbamento per la purezza, la dolce tirannia dell’esistenza nella sua affascinante inafferrabilità.
La Roma di Sorrentino è una città malamente sopravvissuta a se stessa. L’amara allegoria di un fallimento.