di Giovanni Scolari
LA STORIA
La caduta del Giappone alla conclusione del secondo conflitto mondiale ha dato il via libera alle forti rivendicazioni indipendentiste di alcune nazioni del sud est asiatico. In particolare, in Vietnam esisteva da anni un forte partito comunista che, sotto la guida di Ho Chi Minh, aveva preso il controllo di gran parte del Vietnam del Nord in risposta alla occupazione ad opera dell’esercito di Hirohito. A fare da contrasto a tali ambizioni vi era la Francia che, una volta liberata dal dominio nazista, rivendicava ancora il possesso delle sue vecchie colonie, chiedendone la restituzione. Giocando d’anticipo Ho Chi Minh proclamava il 2 settembre 1945 la nascita della Repubblica democratica del Vietnam mettendo i transalpini di fronte al fatto compiuto, cosa che ha provocato un deciso intervento armato. Gli scontri successivi tra i francesi e le forze comuniste di Ho Chi Minh hanno portato alla formazione di due stati contrapposti formalmente ratificati nel 1954 alla conferenza di Ginevra indetta dopo la disfatta dell’esercito francese a Dien Bien Phu. Tale conferenza, infatti, stabiliva un cessate il fuoco e la nascita di un confine temporaneo, delimitato dal 17° parallelo, in attesa di elezioni libere per riunificare il Vietnam entro due anni, con la contemporanea nascita di una commissione internazionale per il rispetto degli accordi.
La situazione geopolitica della zona non permise mai l’ottemperamento dell’intesa raggiunta. Il Vietnam del Sud finì, infatti, in quegli anni sotto il controllo sempre più manifesto degli Stati Uniti che subentrarono alla Francia uscita ridimensionata e umiliata dalla guerra in Indocina. Gli Stati Uniti cominciarono a considerare con sempre maggiore attenzione la situazione del sud est asiatico dopo la rivoluzione comunista in Cina e la sanguinosa ed inutile guerra di Corea. Nel panorama della guerra fredda il Vietnam del Sud insieme a Laos e Cambogia divennero la frontiera della contrapposizione tra gli USA e i nemici del blocco comunista. Si spiega in questo modo il sempre maggiore coinvolgimento statunitense in un conflitto che segnerà la storia del colosso mondiale.
Dopo i primi passi compiuti sotto la presidenza Eisenhower, sarà John. F. Kennedy a ritenere prioritario l’interessamento statunitense alla situazione vietnamita. La prima crisi militare e politica di questo periodo si svolge, però, nel vicino Laos dove è in corso l’ennesima guerra civile. Ristabilita la pace con un’altra conferenza, Kennedy appoggia sempre più chiaramente il corrotto regime di Dien, presidente sudvietnamita dal 1955. La strategia di Kennedy si basava sulla “controinsurrezione”, una serie di interventi contro la guerriglia vietcong che cercava di erodere il regime del sud attraverso l’infiltrazione di guerriglieri e propagandisti. I pilastri di questa strategia erano la sicurezza della popolazione in generale e un programma di villaggi strategici, circondati da filo spinato e sorvegliati da unità regolari e dai reparti di marines denominati Berretti verdi, immortalati in un film di cui parleremo successivamente.
Dopo l’assassinio di Kennedy nel 1963, il neopresidente Johnson decise di proseguire nella politica del predecessore utilizzando la retorica patriottica e nazionalista per giustificare l’aumento della presenza militare. Anche il cruento colpo di stato militare che detronizza e assassina il corrotto presidente Dien insieme al fratello non fa mutare la scelta strategica, nonostante fosse evidente che serviva solo a rafforzare gerarchie militari altrettanto incapaci ed imbelli che negli anni successivi si spartiranno il potere in un crescendo di corruzione e violenze che sortiranno golpe a ripetizione.
Nonostante il parere negativo di alcuni suoi collaboratori che premono per il disimpegno dalla guerra, Johnson compie una scelta di carattere opposto nel tentativo di obbligare il Vietnam del Nord ad una trattativa su basi più sicure, timoroso com’è di dover ammettere una sia pur parziale sconfitta americana. Pur consapevole della debolezza intrinseca del regime sudvietnamita, Johnson non intende mollare la presa prima di aver raggiunto qualche risultato politico. Tutto ciò comporta un aumento del contingente militare in Vietnam.
Il 1965 porterà ad un’ulteriore escalation della guerra. Le intenzioni del nuovo presidente Kahn non si traducono mai, infatti, in una effettiva capacità organizzativa e tutta l’iniziativa militare resta nelle mani dei marines che si scontrano con i progressi continui dei vietcong sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista propagandistico. Al fosco quadro militare si aggiungono le macchinazioni politiche che preludono a continui colpi di stato che non fanno altro che peggiorare la situazione.
L’evidente inadeguatezza delle strategie fino a quel momento tentate, spingono Johnson ad ordinare una serie di bombardamenti denominati “rolling thunder”. La decisione viene presa per bloccare l’avanzata nordvietnamita ed incontra il solo parere negativo del sottosegretario di stato George Ball. Negli altri dirigenti dello staff presidenziale prevale la certezza che Cina e URSS non avrebbero mosso un dito e che, di conseguenza, i pesanti danni umani ed economici avrebbero costretto il Vietnam del Nord ad accettare una conferenza di pace. È solo dopo questa data che la protesta contro la guerra uscirà dai ristretti circoli intellettuali per entrare nel dibattito politico.
Tra il 1965 e il 1966 furono triplicati i bombardamenti senza, tuttavia, riuscire a frenare le infiltrazioni nel sud né tantomeno l’impegno dei nordvietnamiti nella resistenza. Infatti, i bombardamenti hanno un’effettiva efficacia in nazioni che non si basano, come il Vietnam dell’epoca, su una economia rurale, senza particolari industrie ed infrastrutture. L’unico effetto pratico fu di colpire in modo indiscriminato la popolazione civile senza incidere minimamente sulla struttura dello stato e dell’esercito. Inevitabile, poi, con il dispiegarsi del conflitto, che Cina e Unione Sovietica inviassero cospicui aiuti economici al proprio alleato che compensavano ampiamente i danni subiti. Rolling thunder non ebbe, quindi, risvolti positivi e alla fine del 1967 la guerriglia organizzata dal Fronte di Liberazione Nazionale era passata da 35.000 a 90.000 uomini.
I soldati americani erano invece saliti dalle 23.000 unità della fine del 1964 alle 385.000 del 1966, fino alla ragguardevole quota di 535.000 uomini all’inizio del 1968. La strategia via terra, denominata “cerca e distruggi”, coordinata dal generale Westmoreland, si basava su di un’idea di guerra convenzionale che non ebbe minimamente successo perché non teneva conto della natura del territorio, ostile alla consueta condotta militare, e del fatto che l’esercito vietcong non combatteva con le logiche fino ad allora conosciute. Inoltre, i vertici dell’esercito continuavano a considerare il numero dei morti inflitti al nemico come un oggettivo segnale della loro superiorità. In realtà, le numerosissime vittime nordvietnamite venivano rimpiazzate immediatamente, lasciando intatta la capacità d’azione dell’esercito di Ho Chi Minh. E non bisogna dimenticare che spesso i caduti civili venivano conteggiati tra le vittime nemiche.
La strategia “cerca e distruggi” sostanzialmente vanificò gli aiuti che gli americani portavano ai contadini. I continui bombardamenti e i rastrellamenti condotti dalle unità dei marines annullavano presso la popolazione civile i risultati raggiunti dalle operazioni di pace e spesso fornivano argomenti alla resistenza. “Cerca e distruggi” si basava sulla distruzione delle basi nemiche che dopo essere state individuate venivano pesantemente bombardate. Successivamente scattava l’attacco via terra. A fronte dell’imponente forza di fuoco messa in campo i risultati furono modesti. Appena l’offensiva si considerava conclusa i nord vietnamiti riprendevano rapidamente il possesso della zona attaccata. I pochi scontri diretti tra i due eserciti si concludevano peraltro sempre con la schiacciante vittoria americana, cosa che convinse l’esercito vietcong ad utilizzare solo la tattica della guerriglia che così brillanti risultati aveva portato.
La serie di offensive portate tra il 1965 e il 1968 da Westmoreland non ottennero, quindi, i risultati che si prefiggevano. Si calcola che le perdite nordvietnamite furono circa 179.000 a fronte dei 13.500 caduti statunitensi e dei 40.000 sudvietnamiti. Nonostante questo, dopo oltre due anni di bombardamenti ed attacchi impressionanti, gli obiettivi americani non erano stati assolutamente raggiunti e tutto restava come era prima del conflitto. L’unico frutto della campagna militare era aver tenuto in vita un regime corrotto, incapace di reggersi sulle proprie gambe. Tra il 1965 e il 1967 lo scontro ai vertici del governo si era concluso con un altro colpo di stato che aveva portato ad un vero e proprio scontro armato tra le stesse forze dell’esercito. La conclusione vittoriosa aveva solo apparentemente rafforzato il regime in carica ma il livello di corruzione, di inaffidabilità dell’amministrazione sudvietnamita era giunto a livelli insopportabili. A questo si aggiungeva la dura repressione contro i buddisti e la sensazione generale ormai recepita dalla popolazione che la guerra non fosse un affare che li riguardava, ma una questione americana.
I danni tra i civili erano però ingenti. La strategia militare USA aveva mancato nel suo scopo di proteggere i contadini e i campi creati e aveva lasciato dietro di sé una fiumana inarrestabile di profughi (si calcola circa 4 milioni di persone) che, riversatisi nelle città e in campi profughi fatiscenti, andava ad ingrossare le fila della guerriglia organizzata dal Fronte Nazionale di Liberazione.
Tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968 vi sono degli avvenimenti che indicano chiaramente il fallimento dell’amministrazione Johnson. Il 21 ottobre del 1967 viene organizzata la marcia dei 100.000 a Washington contro la guerra e nel gennaio del 1968 viene lanciata dai nordvietnamiti la cosiddetta Offensiva del Tet contro le principali città del Vietnam del Sud.
Nel primo caso il movimento pacifista riusciva ad attirare l’attenzione su di sé dopo un paio di anni di lotte sterili, vista la mancanza di unità tra le diversi componenti presenti sul campo e le diverse finalità che esse si proponevano. Inoltre, l’aspetto esteriore di molti manifestanti che aderivano ai diversi movimenti giovanili di protesta dell’epoca contribuiva a gettare una cattiva luce su tutti coloro che si schieravano contro il conflitto in atto. A questo si aggiungeva una sotterranea campagna di denigrazione condotta dal governo in collaborazione con la Cia e l’FBI. Tuttavia, l’iniziativa di Washington ha un’eco enorme e inizia ad erodere il consenso interno. A demolire le promesse di una felice conclusione delle ostilità vi è l’improvvisa offensiva militare scatenata dai Vietcong. Nonostante i vertici militari americani fossero colti di sorpresa, l’offensiva del Tet non produsse alcun risultato per Hanoi che doveva constatare come nel sud non ci fosse grande fervore rivoluzionario (la popolazione era rimasta inerte durante gli scontri senza prendere parte per alcuno) e come fosse impossibile far crollare il regime avversario con un attacco frontale vista la soverchiante preponderanza delle armi americane. Tuttavia, l’attacco sbugiardava manifestamente i tentativi da parte del governo di rassicurare l’opinione pubblica e mostrava quanto ancora ci fosse da fare per sconfiggere la resistenza comunista. A seguito di questi avvenimenti la credibilità di Lyndon Johnson andò a picco e i sondaggi disastrosi lo dissuasero dal ripresentarsi alle presidenziali del 1968. Nel frattempo stampa e televisione prendevano una posizione sempre più critica verso le operazioni belliche, influenzando il parlamento che, a fronte degli evidenti insuccessi, cominciava a ripensare la politica americana del sud est asiatico. Vennero, così, bocciati i tentativi di Westmoreland di aumentare il contingente militare di oltre 200.000 unità, come altre fonti di finanziamento a sostegno del Vietnam del Sud.
Le elezioni presidenziali del 1968 videro trionfare il repubblicano Richard Nixon che subito dovette affrontare una serie di problematiche. In primo luogo constatò l’ennesimo fallimento delle trattative con il Vietnam del Nord, successivamente fece fronte all’indignazione mondiale del massacro di My Lay.
Nel marzo del 1968, infatti, un reparto di marines penetrò nel villaggio di My Lay dove fece strage di centinaia di contadini innocenti, nonché di vecchi, donne e bambini. L’efferatezza e la crudeltà di quel massacro, compiuto senza alcun ragione e contrassegnato da un orribile sadismo è una mazzata per l’immagine di liberatori che gli statunitensi tentavano di accreditarsi. I colpevoli pagheranno con condanne lievissime che verranno ben presto condonate.
Infine, Nixon deve fronteggiare la sempre maggiore forza del movimento pacifista che organizza nel novembre del 1969 una manifestazione che vede la partecipazione di ben 250.000 persone. I cortei di protesta coinvolgono soprattutto giovani e universitari unendosi in un ondata di protesta non solo contro la belligeranza, ma anche contro il sistema sociale e culturale in vigore. Nel maggio del 1970 si spara addirittura contro la folla e 4 studenti vengono colpiti a morte dalla Guardia Nazionale chiamata a sedare i tumulti. Nixon tenta di richiamarsi alla “maggioranza silenziosa”, ma comprende come gli spazi di manovra siano sempre più ristretti. Per questo motivo diminuisce parzialmente il numero di soldati in missione e avvia negoziati segreti con i dirigenti nordvietnamiti saliti al potere dopo la scomparsa del leader storico Ho Chi Minh (3.9.1969).
Le trattative subiscono diverse interruzioni, soprattutto per la volontà del presidente sudvietnamita Thieu, di boicottare gli accordi che non mantengono intatto il suo potere. Ma Nixon e i suoi collaboratori hanno ormai perso la speranza di vincere il conflitto e stanno solo cercando un modo per uscirne senza pagare un dazio troppo alto.
Tra trattative e prese di posizione di Camera e Senato sempre più avverse alla soluzione militare si arriva al 1974 quando Nixon è costretto a dimettersi dalla presidenza a seguito dello scandalo Watergate, in cui fu accertata una azione di spionaggio condotta dai servizi segreti contro i democratici ordinata dallo stesso Nixon. Il testimone fu raccolto dal vicepresidente Ford che, subentrato a Nixon, completa la fase di ritiro del contingente americano lasciando a se stesso il regime sudvietnamita che crolla definitivamente nell’aprile del 1975.
I FILM
La guerra è iniziata sostanzialmente da quattro anni, ma Hollywood (che vive una fase di profonda involuzione terminata solo a metà degli anni settanta) sembra non essersi accorta di quanto accade nel Vietnam. Nel 1967 il famoso attore John Wayne decide di rompere il silenzio e comincia a girare il suo secondo film da regista scegliendo come soggetto proprio il conflitto del sud est asiatico. Il titolo è oltremodo esemplificativo del punto di vista di Wayne che dedica la pellicola ai reparti di marines denominati Berretti verdi.
Berretti Verdi : proprio così si intitola la prima pellicola statunitense girata sulla guerra del Vietnam. Girato da una stella di prima grandezza dell’immaginario collettivo USA. John Wayne aveva, infatti, incarnato con i suoi film l’eroe americano per eccellenza, capace di edificare una nazione con le proprie mani, con il proprio coraggio e, se necessario, con il proprio sangue. Non è un caso, quindi, che sia lui e non altri a prendere in mano il vessillo del patriottismo per difendere la scelta bellica. Da questa pellicola, infatti, si può comprendere compiutamente lo spirito che aleggiava in parte dell’opinione pubblica americana, quella più conservatrice e nazionalista che Nixon definì la “maggioranza silenziosa”.
Il film è retrodatato al 1963, secondo il dizionario Mereghetti del 1996, forse in corrispondenza della offensiva di Ap Dac, forse invece è posizionato nel 1965 quando era in atto una strategia da parte dei vietcong per eliminare i campi strategici. Il film di Wayne è, quindi, un’operazione propagandistica che godeva dell’appoggio dei vertici militari e politici, come dimostra il fatto che tutte le riprese sono state effettuate presso Forte Benning, una base dell’esercito in Georgia l’anno prima dell’uscita nelle sale. Un’operazione peraltro molto ingenua visto che sono presenti errori clamorosi e banali come il sole che tramonta dal lato sbagliato in una scena che avrebbe dovuto essere topica per la narrazione.
L’inizio del film rappresenta una conferenza stampa in cui i giornalisti si dimostrano pregiudizialmente contrari alla guerra. Naturalmente, il buon cuore e le parole sagge dei marines sapranno far cambiare idea ai presenti, ma non sfugge un giudizio chiaro sul comportamento dei media, percepiti come avversi o, perlomeno, ciechi di fronte alla minaccia comunista. Sostanzialmente, i giornalisti parlano senza sapere, non sono informati e, soprattutto, sono un gruppo di codardi che non osa andare sul campo a verificare. Nel film, sia a parole che con le immagini, si mette subito l’accento sulle stragi dei civili compiuti dai vietcong celando che la stessa cosa era compiuta dall’esercito americano, come dimostra il massacro di My Lay del 16 marzo 1968, episodio accuratamente tenuto nascosto dai vertici dell’esercito per diversi mesi. Solo l’anno dopo, il discorso sui massacri civili pronunciato da Wayne sarebbe sembrato falso ed ipocrita. I sudvietnamiti vengono mostrati come un popolo orgoglioso, coraggioso e amico dei marines per cui nutrono fiducia, mentre verso i vietcong il sentimento prevalente è odio, paura, timore per via della loro bestiale violenza. Nonostante questo, non può sfuggire il tono generalmente paternalistico con cui Wayne si rivolge agli indigeni, un tono da cui traspare un sentimento di superiorità evidente, un atteggiamento da buon padre che sa come consigliare i bambini inesperti. D’altro canto, lo stesso Wayne esprime questo retropensiero quando afferma che è “meglio non fidarsi di questa gente”, a proposito della popolazione civile.
L’incasso della pellicola non è particolarmente alto, quasi 10 milioni di dollari a fronte di una spesa di 7, dati naturalmente riferiti agli Stati Uniti. L’accoglienza, quindi, non è stata calda, probabilmente ha deluso lo stesso Wayne che, peraltro, stava già vivendo l’ultima fase della sua fortunatissima carriera. Il passo falso dell’attore regista viene comunque fatto rilevare dalla critica e dagli ambienti intellettuali che lo rendono bersaglio dei loro strali. Era, peraltro, nota l’ideologia estremamente conservatrice del “duca” (così i fan lo chiamavano) che non mancava di far conoscere il suo disgusto verso i movimenti di protesta e degli hyppie.
Tuttavia, nell’ambito dell’analisi il film traccia perfettamente il quadro della propaganda governativa nella prima fase del conflitto, nonché lo stato d’animo con cui la maggioranza della popolazione vedeva l’intervento militare.
Dopo questo prodotto, il cinema tace sulla guerra. Escono alcuni documentari che svelano l’andamento della guerra con le sue contraddizioni e brutalità, ma essi non raggiungono il grande pubblico. Scorrendo i titoli relativi alla guerra del Vietnam si nota come nessuno avesse il coraggio di avvicinarsi al tema. Quali i motivi? Certamente ha giocato un ruolo il fatto che le grandi case produttrici non volessero affrontare un argomento così scottante, grondante di attualità. In parte anche che la trasformazione del cinema americano, che stava abbandonando il vecchio star system e viveva un periodo di crisi, non era ancora giunto a maturazione.
La risposta viene nel 1970 quando due film appaiono sul mercato. Sono due opere estremamente diverse fra loro che hanno, però, in comune lo stesso approccio alla guerra: una totale condanna.
Il primo è apparentemente un western: Soldato blu . Il film è, in qualche modo, il perfetto contraltare dell’opera di Wayne. Con l’altra pellicola ha, infatti, in comune una certa ingenuità e il tentativo di fare della propaganda, pur di segno opposto, con la forza delle immagini senza riuscirvi mai, come nel caso precedente.
Già nella didascalia che appare in apertura è chiaro il riferimento al Vietnam. Si ricorda, infatti, che nella guerra la brutalità e la violenza colpiscono soprattutto gli innocenti come le donne e i bambini. La conclusione della scritta ricorda come l’orrore peggiore consiste nel fatto che la violenza mostrata nel film è inferiore a quanto accade nella realtà
La memoria degli spettatori dell’epoca non poteva non recepire immediatamente in queste parole un chiaro riferimento al massacro di My Lay. Avvenuto nel marzo del 1968 era poi stato rivelato solo diversi mesi dopo grazie al giornalista del New Yorker Seymour Hersh. Si trattava dell’uccisione di civili inermi ad opera dell’undicesima brigata. I marines erano entrati nel villaggio con il preciso intento di uccidere tutti gli uomini che furono straziati dalle baionette. Le donne e i bambini furono uccisi con un colpo alla testa. Certamente una donna fu rapita, stuprata ed uccisa, ma non è improbabile che anche altre abbiano subito sorte analoga
Solo nel 1994 quando molto materiale è stato desecretato si è saputo che la strage di My Lay non fu, come dichiarato, un caso sporadico, ma dal 1967 al 1971 furono eseguiti altri 7 massacri con 157 morti, 78 attacchi contro civili inermi, 141 casi di torture a prigionieri. Ben 203 soldati furono incriminati, 57 inviati alle corti marziali e 23 condannati, ma con pene lievi al punto che la più dura fu quella di 7 mesi di carcere. Il responsabile dell’eccidio di My Lay ha poi lavorato nel campo delle assicurazioni.
All’epoca, però, questi fatti erano poco conosciuti. Tuttavia non sfuggiva all’opinione pubblica, soprattutto ai più giovani che rischiavano di essere richiamati alle armi, che la guerra del Vietnam stava assumendo un risvolto di cui essere ben poco orgogliosi.
In Soldato Blu i due protagonisti sono il simbolo della gioventù americana dell’epoca. Candice Bergen incarna l’anticonformismo, l’odio verso la guerra, le convenzioni, la tolleranza. In qualche modo è l’espressione delle tante dive americane che avevano sposato la causa dei vietcong. Famosa, tra le altre, Jane Fonda soprannominata Hanoi Jane perché ritratta in una foto scandalo vicina ad un cannone nordvietnamita scattata durante la sua visita nel Vietnam del Nord. Ritornando alla Bergen, ella appare nell’abbigliamento e nel comportamento come una hippie, o comunque come una delle tante ragazze che vivevano quegli anni in contrapposizione con l’ingessata società americana . Honus è, invece, il giovane idealista che crede ai valori classici propagandati della società statunitense (patria e famiglia) e non accetta critiche al suo piccolo mondo ideale. I due si ritroveranno accanto solo nel finale quando Honus, compresa la mostruosità della guerra, si schiera con gli indiani finendo in carcere. È esemplificativo per far comprendere quanto detto, un dialogo del film in cui la Bergen, pur essendo stata prigioniera dei cheyenne per due anni, difende la cultura indiana rinfacciando le violenze inaudite dei bianchi, peraltro mostrati in precedenza come razzisti e boriosi. Honus tende a negare tutto ciò, ma il finale gli aprirà gli occhi sulla realtà.
È significativa anche l’immagine mostrata dal regista durante la scena dell’attacco. Mentre il reparto di cavalleria si scaglia sul villaggio indiano ormai indifeso ed abitato soltanto da donne e bambini, i soldati passano sopra la bandiera americana che ne esce calpestata e distrutta. L’uso della bandiera in queste metafore di facile comprensione è tipica di molti autori americani e sta a significare l’attaccamento alla patria anche nei momenti in cui la stessa viene criticata. Il messaggio è chiaro: chi fa queste cose disonora gli Stati Uniti.
Diverso è l’approccio al problema in Fragole e Sangue , film contemporaneo al precedente. Prodotto da una grande casa cinematografica sull’onda del successo del prodotto indipendente “Easy rider”, tratta delle numerose proteste studentesche esplose per contestare la guerra. Da molti critici il film è criticato proprio per questo aspetto ed è stato definito come un’operazione furbetta per attrarre il nuovo pubblico che stava popolando le sale. Comunque esso vada considerato rimane una pellicola quasi unica nel suo genere per l’argomento e per la sua trattazione.
Nelle fasi iniziali il regista ci mostra subito come era composto l’universo giovanile dell’epoca. Nella casa di Simon troneggiano dei chiari simboli che saranno arricchiti successivamente. Nel suo appartamento stanno fianco a fianco il poster di Robert Kennedy, morto pochi mesi prima, e la bandiera americana, come già detto, anche se questa volta essa sta nel caminetto in formato mignon, in un angolo insomma. Successivamente vengono mostrate le immagini di Che Guevara e di Mao, quest’ultimo filtrato dalla pop art che lo aveva ritratto in famose serigrafie. La musica è l’altro aspetto essenziale dell’esistenza di Simon e nell’economia del film. Tra i collaboratori alla colonna sonora ci sono, tra gli altri, un gruppo come Crosby, Still, Nash & Young, famosissimi all’epoca.
Simon, il protagonista, non ha precise idee politiche ma non ha simpatia per il governo come si evince dallo strano dialogo con uno scarafaggio che lascia vivere paragonandolo ai vietcong. Il pacifismo, poi, si aggiunge ad una serie di contestazioni mosse alla società. Dei giovani che organizzano un happening teatrale in mezzo all’università recitano la parte degli “adulti” facendo dire loro una serie di slogan: ama la patria, uccidi per la patria, studia, prega il Signore, resisti e mangia per mamma, guadagna, lavora. Tutto questo, appare insito nel messaggio, uccide il giovane e lo massifica. Inutile dire che nei comizi che appaiono in tutto il film ritorna spesso la verbosità della ideologia di quegli anni in cui tutto si mescolava: il pacifismo, sì, ma anche la liberazione sessuale (abbondantemente mostrata), le lotte razziali, la contestazione del capitalismo.
Lo scontro ideologico in atto è mostrato dall’atteggiamento della polizia: violento, indisponente e mai comprensivo. I giovani liberal vengono considerati tout court comunisti senza distinguere nel magma immenso del movimento pacifista che aveva al suo interno molte contraddizioni. La forte contrapposizione divide la società al punto che si giunge allo scontro fisico con altri giovani conservatori. È curioso osservare che la valutazione degli studenti verso la stampa sia sostanzialmente identica a quanto detto da John Wayne. La critica verso i giornali è di essere prevenuti e faziosi.
Ma è la reazione finale delle forze dell’ordine a dare un senso amaro a tutta la vicenda. I reparti della guardia nazionale sono in posizione d’attacco, come un reparto di marines. La violenza della retata colpisce tutti e ricorda immediatamente la strage compiuta pochi mesi prima, mentre il film era ancora in lavorazione, presso la Kent State University. I ragazzi utilizzano la resistenza passiva sulle note della canzone di John Lennon “Give peace a chance”, ancora una volta la musica assume un ruolo simbolicamente di rilievo.
L’accoglienza riservata al film è buona ai festival, tanto è vero che Hagmann, praticamente scomparso dopo quest’opera, vince il premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Il pubblico non è altrettanto ricettivo e non decreta il successo.
Successivamente, nelle fiction prodotte ad Hollywood, il Vietnam smette di essere un argomento di successo. I temi proposti talvolta sfiorano il conflitto, ma non vi fanno più riferimento in modo così diretto. Stranamente, la materia viene affrontata ad ondate. Dopo il 1970, infatti, per trovare pellicole di rilievo bisogna andare al periodo 78/79 quando in rapida successione escono nelle sale tre importantissime opere come “Il cacciatore” di Michael Cimino, “Tornando a casa” di Hal Ashby e “Apocalypse now” di Francis Ford Coppola. I tre film in questione non vengono in questa sede affrontati per diversi motivi. Nel primo come nel secondo caso il soggetto è più centrato sui reduci (argomento che affronteremo più avanti) e sul loro difficile reinserimento, la terza pellicola, invece, prende spunto da un famoso libro di Conrad e, in aggiunta, l’ambientazione bellica serve solo da sfondo per un viaggio ai confini della conoscenza, soprattutto di sè. Tutti e tre sono film che riscuotono successo di critica e pubblico raccogliendo molti premi tra festival, Oscar e quant’altro, ma nell’ambito della nostra analisi possiamo non affrontarli. La selezione fatta non riguarda il semplice canone estetico, ma soprattutto l’idea di ripercorrere la guerra nel suo compiuto svolgersi.
Ci sarebbero poi da citare, se non altro per una certa attinenza, anche i vari Rambo con Stallone o i Missing in action con Chuck Norris, ma sono sottoprodotti che utilizzano il Vietnam come occasione spinta, senza alcun tipo di riflessione. Sarebbero, però, molto interessanti se l’ottica della ricerca fosse il periodo reaganiano (1980/1988) che aveva portato con sé, come vedremo successivamente, anche una riflessione revanchista sul conflitto vietnamita.
È meglio, da questo punto di vista, ripartire da “Platoon” , il pluripremiato film di Oliver Stone. È meglio perché rappresenta uno sguardo dal di dentro, dal punto di vista dei soldati inviati al fronte. Infatti, Oliver Stone ha vissuto in prima persona la guerra indocinese partecipando come volontario, esattamente come il protagonista suo alter ego, nei 15 mesi successivi al settembre 1967. Quest’opera segna un importante spartiacque perché rende agli occhi di Hollywood “commerciabile” anche il Vietnam. Lo stesso Stone racconta come, nonostante i suoi numerosi successi come sceneggiatore, si sia visto rifiutare per anni dalle grandi case produttrici la possibilità di realizzare lo script a cui teneva di più. E anche Platoon ha visto la luce grazie a finanziatori europei che hanno fornito la maggior parte dei sovvenzionamenti (complessivamente circa 6 milioni di $). Solo dopo il successo agli Oscar e al botteghino, l’argomento Vietnam viene accettato dalle major che danno il via libera ad una serie di pellicole. Tutto questo ben 8 anni dopo “Il cacciatore”.
Il film si apre con una scritta che colloca la vicenda in un preciso piano temporale e colloca perfettamente l’azione: “1967 Al confine cambogiano”. Inoltre, il regista ha deciso di narrare la vicenda da un punto di vista soggettivo, attraverso la voce parlante del protagonista che è aggregato alle truppe che pattugliano il confine con lo stato asiatico per evitare sconfinamenti dei vietcong. La via migliore far giungere i rifornimenti dal nord al FLN era proprio il passaggio attraverso Laos e Cambogia, stati che, data la loro particolare situazione politica, non avevano alcun interesse ad interrompere il flusso armato nel loro territorio. Proprio per questo motivo Johnson aveva autorizzato una forte offensiva con tanto di bombardamenti. Inoltre, via terra continuava la strategia denominata “cerca e distruggi”, così perfettamente mostrata durante tutto il film. Questa strategia metteva, però, in grande difficoltà i marines, estenuati da operazioni inconcludenti, faticosissime e snervanti. Stone dichiara che: “.. Da quella guerra nessuno è uscito pulito,Tutti hanno subito una devastazione morale. Ci capitava di rivolgere la violenza al nostro interno, di combattere tra noi e contro di noi. Non eravamo mai uniti, mai organizzati. Per uno di noi che combatteva nella giungla, ce n’erano sette imboscati…. Ed erano corrotti. […] I sud vietnamiti non volevano combattere, volevano i nostri soldi. E noi contavamo i giorni che mancavano al congedo, come fanno i carcerati.”
Questa descrizione dello stato d’animo dei soldati statunitensi, di un volontario si badi bene, sono chiarificatrici sul comportamento delle truppe americane, molto spesso in balia di ufficiali incapaci o inadatti (come nel film), piuttosto che di personaggi ormai senza controllo e quindi sadici e violenti. Tra i soldati girano in quantità droghe ed alcool, palliativi per arginare il dolore, la fatica e la paura. Un rapporto del dipartimento della Difesa rivela che nel 1970 il 60% dei soldati faceva uso di droghe, percentuale salita al 70% nel 1973.
Il nemico è inafferrabile, un fantasma capace di vivere in condizioni al limite dell’umano, in grado di sopportare fatiche incredibili. Il cunicolo scoperto ed ispezionato dal sergente Elias (che ricorda peraltro altri visitabili dai turisti attualmente) ci mostra quali erano le capacità di sopportazione e di organizzazione nord vietnamita. La strutturazione dell’esercito in tal maniera rendeva facili gli spostamenti, permetteva in modo semplice la riappropriazione dei territori appena battuti dagli americani e consentiva di riposare efficacemente e più comodamente dei marines esposti, durante le loro missioni, alle intemperie.
La crudeltà dello scontro armato e la frustrazione rendono ciechi e rabbiosi i soldati. Come dimostrato dal massacro di My Lay, questo stato d’animo porta ad incomprensibili violenze sui civili che non vengono svelate per l’omertà diffusa nell’esercito a tutti i livelli. Stone ammette: “Ho fatto cose brutte, ho sparato nei piedi di un vecchio, come si vede nel film. C’erano momenti in cui li odiavo tutti, li volevi ammazzare.”
Il film si conclude con un brutale bombardamento aereo, immagine che ritorna anche in “Apocalyse Now”. Un dato può spingere ad una riflessione. Nel 1967, anno di ambientazione del film, gli Stati Uniti hanno effettuato 108.000 azioni per un totale di 226.000 tonnellate di esplosivo lanciate sul Vietnam del nord.
Lo sconvolgimento di chi aveva partecipato alla guerra proseguiva anche dopo. Le difficoltà di reinserimento colpisce una grande quantità dei 2,7 milioni di reduci. Molti di loro, una volta tornati, rielaboravano il loro vissuto fino a maturare un rifiuto totale del conflitto e la scelta di sfilare con i pacifisti. La parabola esistenziale di Ron Kovic e la sua rappresentazione cinematografica in “Nato il quattro di luglio” sono in questo senso chiaramente esplicativi di quanto accaduto. Il film, tratto dalla sua autobiografia, non è la prima esperienza di Kovic nel cinema. Qualche anno prima, infatti, aveva collaborato alla sceneggiatura di “Tornando a casa” di Hal Ashby, accumulando in tal modo la necessaria abilità per collaborare con Stone alla sceneggiatura ispirata alla sua vita. Per questo motivo la scelta è caduta su questo film piuttosto che su altri citati, in quanto mostra tutti i lati del conflitto: il prima, il durante e il dopo.
Il prima è l’atmosfera patriottica che maturata nell’ambiente familiare conservatore spinge sia Kovic che Stone ad entrare volontari nell’esercito; il durante è la terribile realtà della guerra; il dopo è il durissimo ritorno alla vita normale, ad un reinserimento impossibile per alcuni crollati nell’alcool e nella droga o per chi, come Kovic, è tornato menomato.
Nel prima è descritto l’ambiente guerrafondaio ed ingenuo su cui si basa il conservatorismo americano. La fedeltà alla bandiera, che ritorna ancora come concetto, il sentimento di superiorità e di infallibilità di parte dell’opinione pubblica statunitense. Nel prologo viene anche mostrata in televisione un’intervista al generale Westmoreland che con malcelato orgoglio annuncia la prossima vittoria in Vietnam. La realtà è, purtroppo, un’altra. La vicenda umana di Kovic, come d’altro canto per Stone anche lui reduce, è terribile, piagata com’è dall’orrore degli scontri. I soldati vivono nel terrore, istupiditi da stupefacenti ed alcool in grandi quantità. Lo stato di confusione, di paura induce a numerosi errori che costano la vita a migliaia di innocenti. Molti uccidono e vengono uccisi dal fuoco amico. I sensi di colpa sovrastano tutti, soldati ed ufficiali.
Arrivato nel 1967, Kovic viene ferito gravemente nel gennaio 1968. Perde l’uso delle gambe ed è condannato per il resto dell’esistenza su di una sedia a rotelle. L’impatto con le strutture ospedaliere riservate ai feriti di guerra è spaventoso. Il Veteran Hospital del Bronx illustrato nel film è stato ricostruito con foto d’epoca, con il suo aspetto fatiscente, con i suoi macchinari obsoleti, il personale poco preparato e con problemi igienici agghiaccianti (il topo che si aggira indisturbato nei reparti o la sporcizia che regna ovunque). I feriti americani furono complessivamente 153.000, oltre ai 58.000 morti.
Questo era, quindi,il primo impatto per chi aveva combattuto in un inferno. Da quel momento in avanti per i reduci era come combattere un’altra guerra. I pacifisti li consideravano assassini, chi appoggiava la guerra voleva rimuovere la loro presenza rapidamente, i mutilati deprimono il morale della popolazione. Quasi inevitabilmente si era venuta a creare una spaccatura verticale tra chi aveva combattuto ed il resto della popolazione. Una generazione intera, ricordiamolo quasi tre milioni di giovani molti dei quali appartenenti ai ceti più poveri, era stata abbandonata.
Per Kovic la catarsi è la protesta, il pacifismo, l’adesione al movimento che si opponeva alla guerra e che stava guadagnando sempre più consensi. Ma la lotta è lunga. In un primo momento il film ci mostra la carica della polizia contro gli studenti universitari e il protagonista è solo spettatore di quanto accade. La violenza della polizia che si accanisce contro ragazzi e ragazze gli ricorda, però, la guerra e le sue esperienze personali. Siamo nel 1969 a pochi giorni dalla strage della Kent University costata la vita a cinque giovani. Centinaia di università in tutti gli Stati Uniti hanno indetto scioperi ed occupazioni, nel movimento pacifista vi è la sensazione di essere vicini alla affermazione.
Non è, però, così. Vediamo che nel 1972 Kovic, divenuto ormai leader del movimento, fa irruzione nella convention repubblicana che ricandida trionfalmente Nixon alla presidenza degli Usa. Nixon vince a mani basse e sarà lui a concludere il conflitto ritirando le truppe, prima di essere travolto dallo scandalo Watergate. La conclusione del film è ad un’altra convention, ma è quella democratica che lancia Jimmy Carter alla vittoria nel 1976. In quella circostanza Kovic è tra i relatori, ammesso tra i grandi della politica per rappresentare i reduci del Vietnam in modo completo. Da quel momento questa guerra diventa un argomento importante nella politica americana. Reagan costruisce la sua leadership sull’orgoglio nazionale, si cerca di screditare Clinton mostrando la sua partecipazione a marce pacifiste in cui si bruciava la bandiera americana, il candidato democratico alla presidenza del 2004 è John Kerry, eroe in guerra e, una volta tornato a casa, tra i capi del movimento pacifista.
“Full metal jacket” è solo apparentemente un film di guerra. Girato prima di “Nato il quattro di luglio” possiede i contorni del genere ma, come è tipico di Kubrick, procede svuotandoli dall’interno per una riflessione sull’uomo e la sua natura duale. Come il protagonista Joker, l’essere umano aspira alla pace, ma produce violenza. Per questo tipo di ricerca dovrebbe, conseguentemente, non essere utilizzato. Invece, quest’opera rappresenta la sommatoria di quanto abbiamo parlato. Vi è la ricerca del vero attraverso l’accurata ricostruzione di una battaglia accaduta durante l’offensiva del Tet, utilizzando le foto d’epoca. Vi è mostrato in modo esatto l’addestramento inflitto ai giovani americani, tanto esatto che l’interprete del sergente Hartmann è stato un vero istruttore militare, scelto come attore per l’impossibilità di riprodurre il colorito linguaggio dell’esercito attraverso una persona “altra”. Vi è l’interpretazione morale e spirituale di un conflitto.
Siamo, infatti, nella fase matura sui film del Vietnam, non entrato ancora nella sterilità ripetitiva, ma ormai vittima di una serie ricorrente di motivi visivi, di schemi narrativi e di interessi tematici. Kubrick utilizza questi contorni per celebrare il mito di questa guerra, inserendolo in un contesto celebrativo che esplica le due facce del rimorso e dell’orgoglio americano.
I due cosceneggiatori, con Kubrick, sono stati entrambi osservatori diretti del conflitto: Hasford come corrispondente del fronte per i Marine, Herr come giornalista civile. Entrambi hanno scritto resoconti allucinati e cruenti di quanto avevano visto. Così vengono scritturati da Kubrick che ogni qualvolta aveva deciso di affrontare un film impiegava diversi anni nella costruzione di una documentazione impeccabile che gli permetteva la perfezione tecnica, da tutti ammirata, nella realizzazione delle sue opere.
Ecco, quindi, spiegata la costante sostituzione dei nomi dei soldati con nomignoli che li allontanano dalla possibile morte e dagli atti violenti che compiono. Ecco l’elemento linguistico, il linguaggio violento e scurrile che tutti adoperano senza inibizioni in qualsiasi fase della guerra: dall’addestramento agli scontri armati. È un bombardamento lirico di oscenità omofobiche, misogine e razziste. E tale linguaggio è posto nella bocca di Lee Ermey, ex istruttore dei Marine, che libero anche di inventare a ruota libera, toglie ogni affettata retorica al corso di addestramento. Il corso è il momento in cui i soldati diventano dei killer, spersonalizzati nelle loro armi, nei loro rituali e nella loro distorta realtà. Riecheggia il giudizio morale di Kubrick che già si era espresso con chiarezza nel corso della sua carriera contro ogni forma di guerra e la connessa follia umana.
Nell’opera viene recuperato in un certo senso anche il mito della frontiera, presente in qualche modo anche in “Soldato blu”, con i cosiddetti “musi gialli” (come detto da un soldato) al posto degli indiani. Il modello per eccellenza del film di frontiera era John Wayne, protagonista anche di diverse pellicole sul secondo conflitto mondiale, come per esempio “Iwo Jima”, ammirato dal Ron Kovic di “Nato il 4 di luglio”.
Tutti i miti della memoria americana si ritrovano riassunti in questa opera così asettica e cruda da sembrare lontana dalla realtà. E nella sequenza finale i soldati sopravvissuti allo scontro si allontanano, immersi in un terribile tramonto di sangue, cantando la canzone di Topolino. Un mito dell’infanzia, questa volta, ma sempre un mito in grado di mostrare la natura ambigua dell’uomo, schizofrenicamente prigioniero della guerra.
Se “Full Metal Jacket” è l’interpretazione spirituale del conflitto vietnamita, “Forrest Gump” riscrive trenta anni della storia americana toccando tutte le trasformazioni che hanno visto diventare il colosso mondiale. In questo senso, la guerra del Vietnam diventa una tappa importantissima della storia recente, ma viene inserita in un contesto più ampio, capace di toccare le molteplici anime della nazione. La visione di questa opera non ha bisogno di commenti, al limite di una guida che sappia spiegare in modo ampio e approfondito tutti i personaggi storici, gli avvenimenti citati, i movimenti culturali che sono tratteggiati nel corso di tutto il film.
Ecco che il momento dedicato al Vietnam riassume tutti i motivi mostrati nelle pellicole del genere, comprese quelle che abbiamo citato. La retorica nazionalista e patriottica di John Wayne viene sbeffeggiata nel ritratto del tenente Dan che successivamente ridotto su una sedia a rotelle, si rifarà al personaggio di “Nato il quattro di luglio”. La contestazione giovanile viene irrisa e riprodotta come in “Fragole e sangue”, così come vengono richiamati anche altri film che hanno segnato un’epoca ad Hollywood. Tutto ciò avviene senza sarcasmo, con nessuna intenzione di parodiare. È una cavalcata nostalgica, al modo di “Come eravamo” nella gioventù del regista, Zemeckis, e del produttore Steven Spielberg. E il pubblico ricompensa con grandi incassi, i premi sono tantissimi tra cui sei Oscar assegnati al film, regia, attore protagonista, sceneggiatura non originale, montaggio ed effetti speciali visivi. In quest’ultima categoria viene riconosciuta la grande bravura dei tecnici capaci, grazie ad appositi software utilizzati per la prima volta nel cinema, di inserire Tom Hanks in filmati d’epoca, consentendogli così incontri virtuali con Kennedy, Johnson e Nixon, oltre che di partecipare in prima persona ad avvenimenti come la marcia su Washington o programmi televisivi al fianco di John Lennon.