di Gianfranco Angelucci
Fino al 31 marzo resterà aperta al Vittoriano la mostra “Alberto Sordi e la sua Roma”, dedicata da Alessandro Nicosia al 10° anniversario della scomparsa dell’attore. L’evento curato da Gloria Satta e Vincenzo Mollica è arricchito da molti filmati delle Teche Rai e dell’Istituto Luce, tra cronaca e rievocazione. Toccante l’addio all’artista in Piazza San Giovanni con il feretro esposto davanti a 250.000 persone, e un piccolo aereo che volava in cielo trascinando lo striscione: “Sta vorta ci hai fatto piagne”. Sordi ha incarnato l’italiano vero in cui nessuno vorrebbe riconoscersi, e per questo è stato odiato da Nanni Moretti che in “Ecce Bombo”gli scaglia contro il suo disprezzo: “Ve lo meritate Alberto Sordi!” Quasi peggio di Nino Manfredi che scriveva su un quotidiano: «Sordi non ha mai fatto altro che se stesso in vita sua ed è per questo che oggi è finito». Cattivi predicatori e incauti profeti: all’attore è stata addirittura intestata la Galleria Colonna e in suo omaggio l’allegra giunta Alemanno è stata sul punto di cambiar nome al Viale del Museo Borghese, uno sfregio alla città neutralizzato in tempo dagli ambientalisti e dagli stessi romani. Sarà sufficiente quel tratto di strada del parco a Porta Pinciana che immette alla Casa del Cinema. La grandezza di Sordi va celebrata non dimenticando i suoi film, alcuni giganteschi, come “Una vita difficile” di Dino Risi, o “La grande guerra” di Mario Monicelli; ripercorrendo la galleria di oltre centocinquanta personaggi che permise anni fa a Giancarlo Governi e Rodolfo Sonego di allestire per la televisione la “Storia di un italiano” in ben quattro serie successive. Per l’ “Albertone nazionale” il successo era arrivato con Federico Fellini che lo aveva chiamato a interpretare “Lo sceicco bianco” e quindi il fortunatissimo “I vitelloni”, Leone d’argento al Festival di Venezia del 1953. A Roma esiste il “Fan club I Vitelloni”, citato anche nel catalogo dell’Editore Cangemi che raccoglie testi d’autore (accanto ai curatori figurano Tiziana Appetito, Carlo Verdone, Vincenzo Cerami, Nicola Piovani, Carlo ed Enrico Vanzina) oltre le interviste e gli articoli scritti da Sordi per Il Messaggero, e l’attenta illustrazione di tutto il materiale esposto. Nello spazio ricavato nel cuore più intimo del Vittoriano, al terzo piano, c’è anche la poltrona da barbiere (l’attore nella sua villa di Via Druso oltre alla sala cinematografica aveva un salon privato da barbiere), il toro meccanico comprato a Kansas City, di cui divenne cittadino onorario dopo l’exploit di “Un americano a Roma”, la scrivania di lavoro, la bicicletta, gli attrezzi ginnici; e poi i premi accumulati nel corso della carriera, la poltrona da riposo, i cimeli dell’amata squadra del cuore, che non è la Lazio. Tra i grandi pannelli fotografici, spicca l’attestato con la benedizione apostolica di Sua Santità Giovanni Paolo II a cui Albertone aveva confessato di aver sviluppato il desiderio di fare l’attore proprio servendo da chierichetto in Santa Maria in Trastevere, e scambiando l’altare per un palcoscenico. Con il Pontefice c’era stato un dialogo tra colleghi; Sordi gli aveva domandato se era stato più difficile diventare papa o attore: “E’ stato più difficile diventare attore – aveva risposto Karol Wojtyla, – Papa mi ci hanno fatto.” Il pubblico, palpitante d’affetto, sosta a crocchi di fronte agli schermi che ripropongono le partecipazioni televisive. Accanto a Mina: “Sei grande, Mina, sei una fagottata di roba!” Con Raffaella Carrà: “Sei proprio romagnola, Roma di dentro e tutta gnola di fuori!” Suggestivo e poetico il racconto di quando, bambino, il padre una domenica, lo conduce attraverso i vicoletti di Borgo a vedere qualcosa che non dimenticherà mai più: “E’ stato come se sbucando da una quinta si aprisse all’improvviso un sipario immenso, e davanti agli occhi l’apparizione della basilica di San Pietro… una visione.”
“Se fosse nato negli Stati Uniti – sosteneva Fellini – Alberto sarebbe stato un comico mondiale, come i suoi grandi colleghi americani, Harry Langdon, Harold Lloyd, Danny Kaye.”