Iddu – L’ultimo padrino

Il nostro parere

Iddu – L’ultimo padrino (2024) ITA di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza


Sicilia, primi anni 2000. Dopo alcuni anni in prigione per mafia, Catello, politico di lungo corso, ha perso tutto. Quando i Servizi Segreti italiani gli chiedono aiuto per catturare il suo figlioccio Matteo, ultimo grande latitante di mafia in circolazione, Catello coglie l’occasione per rimettersi in gioco. Uomo furbo dalle cento maschere, instancabile illusionista che trasforma verità in menzogna e menzogna in verità, Catello dà vita a un unico quanto improbabile scambio epistolare con il latitante, del cui vuoto emotivo cerca d’approfittare. Un azzardo che con uno dei criminali più ricercati al mondo comporta un certo rischio…


Fabio Grassadonia e Antonio Piazza tornano alla regia con Iddu che porta lo spettatore nelle atmosfere cupe e ironiche della mafia siciliana, ispirato a fatti realmente accaduti nei primi anni 2000. Il film, per certi versi epistolare, vede come protagonista Toni Servillo, un attore che, con la sua interpretazione memorabile e sfumata, riesce a dare spessore a Catello, un ex sindaco corrotto rilasciato di recente dalla prigione e intento a recuperare onore e denaro. Allo stesso modo, Elio Germano si cala nel ruolo del temuto Matteo Messina Denaro con una presenza cupa e intensa, aggiungendo un sottotono inquietante e magnetico al personaggio.

La sceneggiatura non si limita a una rappresentazione tradizionale di un dramma mafioso: anzi, abbraccia simbolismi potenti, resi visivamente vividi grazie alla direzione della fotografia di Luca Bigazzi. Le immagini, nitide e curate, portano lo spettatore in un mondo sospeso tra mito e realtà, con inquadrature che utilizzano giochi di luce e ombra per riflettere la corruzione e il decadimento morale che permeano la storia. Bigazzi riesce a trasformare persino i dettagli più quotidiani, come il paesaggio siciliano e gli ambienti interni, in simboli di un mondo complesso, dove ogni personaggio è circondato da segni e presagi.

Un dettaglio che spicca fin dall’inizio è la scena comica in cui Palumbo viene colpito da un uccello mentre esce di prigione, un simbolo di cattivo presagio che suggerisce subito una svolta grottesca alla narrazione. Questa ironia surreale si intreccia con momenti di profonda intensità drammatica, come quando il protagonista riceve lettere cifrate per comunicare con il boss nascosto, un rapporto che avanza lentamente e che, invece di generare suspense convenzionale, evolve in una riflessione sottile sul potere e il tradimento.

Interessante è anche il personaggio della moglie di Palumbo (Betty Pedrazzi), che, in una delle prime scene, afferma ironicamente che suo marito è “morto e sepolto da tempo”, come a sottolineare un’inquietante realtà psicologica più che fisica. Il commento, per quanto leggero, anticipa il tono crepuscolare del film, in cui la mafia non è più una forza vibrante ma un mito decadente. Al contempo, scene cariche di simbologia religiosa e antica si alternano ai momenti più realistici, come le interazioni con la poliziotta Rita Mancuso (Daniela Marra), che rappresenta la legalità e la morale in una terra dove corruzione e potere hanno salde radici. Va citato, però, tutto il cast tra cui spiccano ancora Barbora Bobulova e Giuseppe Tantillo.

Mentre i momenti di satira e ironia sembrano a tratti riflettere una rappresentazione volutamente atemporale, è l’attenzione alle atmosfere e alla psicologia dei personaggi che emerge come il vero punto di forza del film. La pellicola oscilla tra commedia e dramma, abbracciando un’estetica cinematografica che sfida lo spettatore a leggere tra le righe di questa insolita “corrispondenza” tra potere e mafia.

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