Bohemian Rhapsody (2018) USA di Bryan Singer
La vita di Freddie Mercury diventa film dopo anni di tribolata preparazione con il danno collaterale provocato dal regista Bryan Singer che firma il film, ma ha abbandonato prima della fine delle riprese per contrasti con la produzione. I motivi? Forse sono da ricercare nel fatto che questa opera è prodotta e voluta direttamente dagli stessi Queen che hanno voluto ricordare il loro frontman in questo modo. Inevitabilmente, la narrazione e la ricostruzione sono visti esclusivamente con gli occhi dei sopravvissuti, della ex moglie. Non a caso, infatti, gli eccessi e gli errori di Mercury sono annacquati, ridotti a pochi istanti, sbiaditi, mentre il focus è centrato essenzialmente sui successi musicali, sui rapporti interni alla band.
I Queen diventano così una famiglia perfetta dove si può litigare, ma prevale sempre il perdono, l’unità, il legame di sentimenti e passato. Gli altri vengono espulsi, rigettati, come il manager Paul Prenter che diventa l’incarnazione del male senza, però, che vi sia un approfondimento sulle ragioni e la psicologia. Prenter è il cattivo ma il personaggio è piatto, eccessivamente caricato di difetti senza motivazioni. Gli altri sono troppo buoni di cuore: tutti! Freddie è un bonaccione distrutto dalla solitudine ma perchè sia solo, nonostante sia circondato dai migliori amici, non è dato saperlo. Non ha radici perchè non si riconosce in quelle famigliari, ma alla fine si riconcilia con il padre senza alcuna difficoltà.
Detto degli evidenti difetti della sceneggiatura, cui non si può dare una sufficienza, restano gli aspetti positivi. Ingiudicabile la regia per i troppi passaggi (chi ha fatto cosa? E, soprattutto, cosa è stato scelto tra il girato?), resta ammirevole il lavoro degli attori. Malek è notevole nell’appropriarsi del personaggio in molti aspetti. Se è troppo forzato nei movimenti durante le esibizioni, dà il meglio di sè nei momenti drammatici, nella pieghe del dubbio della mente del cantante. Spettacolare, invece, il Brian May di Gwilym Lee, più vero del vero. Notevole il lavoro di ricostruzione del Live Aid, momento centrale e catartico del film.