Blackkklansman: cool and strong

Il nostro parere

Blackkksman (2018) USA di Spike Lee

Gran Premio della Giuria a Cannes per Spike Lee e Oscar alla sceneggiatura. Un poliziotto afroamericano si infiltra nel Ku Klux Klan per indagare sul razzismo nell’America degli anni 70

L’inizio del film è folgorante con paesaggi mozzafiato che mostrano un’America immensa e selvaggia. A seguire, in poco più di mezz’ora, c’è il comizio di Turè con i volti istoriati nella pellicola, staccati rispetto allo sfondo scuro, e la scena sulla pista da ballo che ricorda i seventies con un’intensità tale da far impallidire la pista da ballo di Saturday Night Fever. Dopo questo incipit, vi è un inevitabile calo che però è compensato dagli strepitosi e continui cambi stilistici: dai toni maestosi del cinema classico ai richiami della blaxpoitation, tramite lo split screen, i costumi, l’ambientazione, le citazioni ostentate al genere. Il finale spiazzante, politicamente schierato, sconvolgente che ci avvisa di come i pericoli non siano mai cessati, ma abbiano semplicemente cambiato forma. E la presenza reale di David Duke, ancora lì a motteggiare impunito sul razzismo è una pietra tombale sulle speranze di miglioramento dell’America.

Era dal 2002 che Spike Lee sembrava aver perso il suo tocco magico, il suo stile inconfondibile, la forza eversiva nella narrazione. Le sue opere erano sempre impeccabili, sempre impegnate, pregne di battaglie civili ma era il risultato finale che sembrava spesso didascalico o incompleto. Bravissimo nella costruzione delle scene, nella direzione degli attori, ma troppo schematico nei suoi intenti. In questo caso ha saputo volare, aiutato dalla colonna sonora di Terence Blanchard, jazzista sopraffino legatissimo ai film di Lee da quasi trent’anni.

La sceneggiatura, premiata dall’Oscar, è senza dubbio notevole per la ricostruzione del periodo e l’approfondimento dei personaggi, ma è la regia la stella, perchè è l’unità di questi ricchissimi elementi ad essere esaltata nell’intreccio.

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