Come ogni anno, ricordiamo chi è scomparso l’anno precedente ed il contributo che hanno dato alla storia del cinema.
Iniziamo da alcuni registi italiani che vanno citati. Il primo è Gianfranco De Bosio (1924-2022) Partigiano, fu uno dei migliori registi ed insegnanti di teatro della seconda metà del novecento. Nel cinema ha diretto due film tra cui il bellissimo Il terrorista (1963). Poi è la volta di Anna Maria Tatò (1940-2022), ultima compagna di Mastroianni che ha effigiato nel documentario-testamento Mi ricordo, sì, io mi ricordo (1997). Infine citiamo un mestierante del cinema come Mariano Laurenti (1929-2022). Sono 51 le sue regie tra cui molti Pierino con Alvaro Vitali e altre commedie scollacciate, nonchè i musicarelli con Nino D’Angelo. Pur frequentando maggiormente la commedia, ha però fatto incursioni in altri generi.
10. Ruggero Deodato (Potenza, 7.5.1939 – Roma, 29.12.2022) Regista di genere, si afferma con la direzione di pellicole di genere cannibal, divenendo noto per il contenuto estremo dei suoi film, che gli hanno procurato il soprannome di Monsieur Cannibal. Ha influenzato registi come Oliver Stone, Quentin Tarantino e Eli Roth. Inizia come comparsa, ma ben presto sceglie la strada della regia. È Roberto Rossellini a dargli la prima opportunità come aiuto regista. Lavora anche con Sergio Corbucci, Riccardo Freda e Antonio Margheriti. Fa il suo esordio con Gungala la pantera nuda, diretto con lo pseudonimo Roger Rockfeller. In quell’anno dirige altri tre film, esplorando generi diversi e affinando il proprio stile. L’idea è di riprendere il filone emergente (thriller erotico, poliziottesco ecc.) proponendo film replica a basso costo ma ad alto contenuto artigianale. Nel 1980 firma il controverso Cannibal Holocaust, contenente scene di reali uccisioni di animali, per le quali Deodato fu condannato a 4 mesi di carcere. Il film venne girato in due modi diversi: la prima parte girata in 35 mm, mentre la seconda in 16 mm, con la pellicola graffiata e un uso costante della macchina a mano, per dare la sensazione del mockumentary. Nonostante le controversie, Cannibal Holocaust è considerato da molti un’interessante e cruda analisi della società contemporanea, nonché un lucido atto d’accusa contro i mass media. Nel 1980 firma La casa sperduta nel parco, iperviolento thriller con scene di violenza agghiaccianti. Dopo I predatori di Atlantide, film avventuroso del 1983, gira il suo ultimo grande film nel 1985 (Inferno in diretta) che conclude la trilogia dei cannibali, anche se è soprattutto un film d’azione che sfoggia forse più violenza e gore di Cannibal Holocaust. A partire dalla metà degli anni novanta, torna alla televisione e dirige molte fiction, tra cui I ragazzi del muretto e, con Bud Spencer, Noi siamo angeli. Nel 2007 è presente nel cast di Hostel: Part II, diretto da Eli Roth, come attore. Lo ha fortemente voluto Quentin Tarantino, produttore del film.
9. Jean Louis Comolli (Skikda, 30 luglio 1941 – Parigi, 19 maggio 2022) è stato un regista, critico cinematografico e critico musicale francese. Dal 1962 al 1978 fu uno dei più importanti e attivi redattori della rivista Cahiers du cinéma, di cui fu direttore dal 1966 al 1971. L’aspetto teorico lo rende senz’altro imporante nella visione complessiva del cinema di quegli anni. Ha diretto una ventina di opere ma la sua più importante resta Cecilia – Storia di una comune anarchica (1975)
8. Jean Jacques Beineix (Parigi, 8 ottobre 1946 – Parigi, 13 gennaio 2022) è stato un regista e produttore cinematografico francese. Iniziò la sua carriera come aiuto regista di Jean Becker, Claude Berri, René Clément e Claude Zidì. Ha un momento di grandissimo successo e di notorietà negli anni ottanta per una serie di film di grandissimo successo. Prima Diva (1981) che vinse diversi Cesar e poi Lo specchio del desiderio (1983). Betty Blue (1986) venne candidato all’Oscar per il miglior film straniero nel 1987 e al Premio César per il miglior film lanciando la stella, fuggente, di Beatrice Dalle. Fu nel 1991 il regista di IP5 – L’isola dei pachidermi, l’ultimo film interpretato da Yves Montand, morto durante le riprese. È morto a seguito di una leucemia.
7. Wolfgang Petersen (Emden, 14 marzo 1941 – Los Angeles, 12 agosto 2022) è stato un regista e sceneggiatore tedesco. Dopo aver realizzato numerosi film televisivi, diresse nel 1974 il suo primo vero film, un giallo che lo segnalerà per le sue capacità tecniche. Proprio questa caratteristica indusse la Bavaria Film a offrirgli nel 1980 la megaproduzione U-Boot 96: un film originale sia per le caratteristiche tecniche – ambientato quasi interamente in un sommergibile girato in stile hollywoodiano con una precisione quasi documentaristica – sia per il tema storiografico (la seconda guerra mondiale vista da soldati tedeschi) che cercava di ribaltare lo stereotipo del soldato tedesco insensibile e crudele. La comunità internazionale riconobbe il valore della pellicola che ottenne sei candidature all’Oscar tra cui miglior regia e miglior sceneggiatura. A Petersen, sull’onda del successo, venne allora affidato il kolossal La storia infinita (1984), la produzione tedesca più costosa del dopoguerra (60 milioni di marchi), che incassò molto più del film precedente. Da allora in poi il cammino del regista fu in continua ascesa: nel 1985 realizzò il suo primo lavoro interamente americano, Il mio nemico, per la 20th Century Fox. A Hollywood si cimentò in generi molto diversi, il film di guerra, il fantasy, la fantascienza, il thriller e i film d’azione, tutti con un aspetto in comune, la necessità di immagini molto spettacolari. I suoi film più famosi sono Nel centro del mirino (1993), Air force One (1997) e Troy (2004). È morto per un tumore al pancreas.
6. Alain Tanner (Ginevra, 6 dicembre 1929 – Ginevra, 11 settembre 2022) è stato un regista svizzero. Figlio di un pittore e di un’attrice, fondò insieme a Claude Goretta nel 1951 il cineclub universitario di Ginevra. Dopo aver lavorato presso il British Film Institute realizza nel 1957 il suo primo film insieme a Goretta, Nice Time (Picadilly la nuit). Il film vince il premio del film sperimentale al Festival di Nizza del 1957. Lavora poi come regista alla televisione svizzera romanda dove firma diversi lavori. Nel 1968 fonda il Gruppo dei 5 insieme a Goretta, Michel Soutter, Jean-Louis Roy e Jean-Jacques Lagrange per promuovere il giovane cinema svizzero. Diviene noto in campo internazionale negli anni settanta, con film come La salamandra con Bulle Ogier, Jonas che avrà vent’anni nel 2000 e Charles mort ou vif con cui vince al Festival di Locarno. Tra gli altri film, Gli anni luce (1981) (premiato a Cannes) e Terra di nessuno (1985).
5. Ivan Reitman (Komárno, 27 ottobre 1946 – Montecito, 12 febbraio 2022) regista e produttore cinematografico slovacco naturalizzato canadese. Nato a Komárno, all’epoca in Cecoslovacchia, da una famiglia ebraica, emigrò in Canada nel 1951. Subito dopo il diploma, cominciò a lavorare in numerosi film, tra i quali due diretti da David Cronenberg, Il demone sotto la pelle (1974) e Rabid – Sete di sangue (1976). La sua fortuna cominciò quando produsse Animal House (1978) e l’anno seguente diresse Polpette (1979). Nei due decenni successivi, diresse e produsse Stripes – Un plotone di svitati (1981), Ghostbusters (1984), I gemelli (1988), Ghostbusters II (1989), Un poliziotto alle elementari (1990), Dave – Presidente per un giorno (1993), Junior (1994), Due padri di troppo (1997), Sei giorni sette notti (1998) e Evolution (2001). Dai primi anni novanta diradò i suoi impegni come regista, preferendo il ruolo di produttore. Collaborò al cartone animato Heavy Metal (1981), Beethoven (1992) e Beethoven 2 (1993), Space Jam (1996) e altri, con successi altalenanti. L’ultimo film è stato il brillante Draft Day (2014) con Kevin Costner. Padre del regista Jason, è morto nel sonno.
4. Peter Brook (Londra, 21 marzo 1925 – Parigi, 2 luglio 2022) Noto soprattutto come regista teatrale, rientra in quel contesto sperimentale delle neoavanguardie del secondo dopoguerra che ha oltrepassato le barriere fra le arti, praticando un’interazione tra cinema, teatro e televisione. Si è avvalso spesso di attori non professionisti e di diversa provenienza etnica, adottando un metodo di lavoro in cui le azioni si improvvisano sul set, al di là della sceneggiatura, pur prendendo spunto da un soggetto che dà il senso alla storia e che in molti casi viene mutuato da importanti testi letterari o teatrali, o da materiali del patrimonio mitologico e culturale. Esordì nel cinema con Sentimental journey (1943), film privo di dialoghi e interpretato da attori non professionisti reclutati nei pub. Fra il 1944 e il 1945 realizzò cortometraggi didattici per l’esercito e contemporaneamente iniziò una straordinaria attività teatrale culminata con la direzione della Royal Shakespeare Company. Dopo The beggar’s opera (1953; Il masnadiero), trasposizione cinematografica del testo teatrale, realizzò Moderato cantabile (1960; Moderato cantabile ‒ Storia di uno strano amore), tratto da un romanzo di Duras: nel film il dispositivo dominante è la parola e la macchina da presa, fissa di fronte ai due protagonisti (Jeanne Moreau e Jean-Paul Belmondo), che capta le emozioni dei due attori, il loro vissuto reale, lasciando che le cose succedano di fronte a essa. Particolarmente importante risultano anche lo spazio e la scelta dei luoghi, come nel successivo Lord of the flies (1963; Il signore delle mosche), girato su un’isola a sud di Puerto Rico, con un cast formato solo da adolescenti di nazionalità diverse; tratto dal racconto di Golding, in cui un gruppo di ragazzi inglesi, abbandonati su un’isola deserta, tenta di darsi delle regole di sopravvivenza, il film mostra i meccanismi crudeli che stanno alla base delle istituzioni umane (divisione in caste, formazione di simboli e riti). Le concezioni teatrali di Artaud e l’insegnamento brechtiano risultarono perfettamente coniugati nella messa in scena del dramma di Peter Weiss, da cui trasse il film noto anche come Marat-Sade (1966), in cui affronta in maniera esemplare il tema del teatro nel teatro; al messaggio egualitario del rivoluzionario, viene contrapposto l’individualismo radicale del Marchese de Sade, che assume la disuguaglianza come dato naturale e concepisce la liberazione come rivolta contro le convenzioni sociali e culturali. Il forte impegno politico venne confermato dal successivo Tell me lies (1968), girato sulla falsariga di una messa in scena teatrale di due anni prima, US, in cui denuncia le responsabilità storiche del governo statunitense nella guerra in Vietnam, attraverso l’assemblaggio di materiali diversi. Dopo King Lear (1970), adattamento televisivo del dramma di Shakespeare, ambientato nello Yutland, dove furono appositamente costruiti castelli, strade, e reclutato un cast composto di contadini e pescatori, nei primi anni Settanta si dedicò al documentario di taglio antropologico, raccontando i viaggi compiuti in Iran e in Africa. Ritornò al cinema di finzione nel 1978 con Meetings with remarkable men, tratto dal libro di Gurdjieff, su una singolare figura di mistico orientaleggiante. Nel 1989 con Il Mahabharata ha offerto una rappresentazione di notevole forza visiva del vasto poema epico, monumento letterario dell’antica cultura indiana.
3. Bob Rafelson (New York, 21 febbraio 1933 – Aspen, 23 luglio 2022) è stato un regista, produttore e sceneggiatore statunitense. Arrivato a Hollywood nella seconda metà degli anni Sessanta, è stato una figura importante tra i ‘ribelli’ che hanno portato nell’industria cinematografica statunitense spirito della ‘controcultura’. Fuori dall’Underground quanto dallo star system, con i suoi primi film ha elaborato originali soluzioni narrative sia nel modificare la linearità della trama, sia nella costruzione dei personaggi. Successivamente si è dedicato alla rilettura dei generi classici (il noir soprattutto), facendone punti di partenza in cui inserire temi e caratteri che vanno oltre gli schemi prefissati. Lavorò come deejay in una radio delle forze armate prima di cominciare a scrivere programmi e sceneggiature per piccole televisioni. Trasferitosi a Hollywood, raggiunse il successo con la serie televisiva The Monkees (1966), da lui scritta, diretta e prodotta insieme a Bert Schneider. Il successo internazionale della serie, che risultò molto originale grazie alla vena demenziale dei Monkees, lo spinse a farne un film, Head, scritto con il giovane Jack Nicholson. Nello stesso periodo fu tra i fondatori della BBS Production che avrebbe prodotto sia Easy rider (1969) di Dennis Hopper sia Cinque pezzi facili (1970). Il film, candidato a quattro premi Oscar (tra cui quelli per il miglior film e la migliore sceneggiatura), più che contestare l’istituzione familiare ne evidenzia la falsità e la rigidità dei rapporti e la conseguente impossibilità dell’individuo di ritrovare in essa il suo spazio vitale. Il successivo Il re dei giardini di Marvin è un’opera che sonda ancora il mondo familiare attraverso la storia di un pubblicitario nevrotico. Un autentico campione (1976), ha segnato una frattura evidente nella sua filmografia che si è adeguato alla fine della spinta dei movimenti giovanili del decennio precedente, anticipando volti e tematiche degli anni Ottanta. L’attenzione del regista si è spostata verso la riscoperta del noir con Il postino suona sempre due volte (1981). Il film è stato trasformato in un cupo dramma psicologico ambientato nell’America della Grande depressione. Con La vedova nera (1987) si è concentrato sulla figura della dark lady, qui raddoppiata nella sfida tra le protagoniste, un’uxoricida e un’investigatrice che si scoprono sempre più simili. Gli anni Novanta sono stati aperti da Le montagne della Luna (1990), storia degli scopritori delle sorgenti del Nilo, incentrata sul tema dell’amicizia virile, alla quale ha fatto seguito la commedia La gatta e la volpe (1992). La volontà del regista di ritornare al cinema degli esordi è stata confermata dal successivo Blood and wine (1996). Ispirato a un racconto incompiuto di Chandler è invece Marlowe ‒ Omicidio a Poodle Springs (1998), in cui il regista ha affidato a James Caan il ruolo di un Marlowe malinconico.
2. Peter Bogdanovich (Kingston, 30 luglio 1939 – Los Angeles, 6 gennaio 2022) è stato un regista, sceneggiatore, critico cinematografico e attore statunitense. Fin da giovane si interessò alla critica cinematografica. Si diplomò con una tesi su Furore e studiò recitazione sotto la guida di Stella Adler. Fin da bambino aveva preso l’abitudine di schedare ogni film che vedeva, corredando ogni scheda con notazioni critiche, pertanto da adulto gli fu facile lavorare come critico cinematografico (all’inizio degli anni ’60 teneva una rubrica su Esquire, in seguito curò al Museum of Modern Art cicli monografici su registi celebri quali Ford, Welles, Hawks) e di alternare questo lavoro con quello di attore. La nouvelle vague francese lo influenzò convincendolo a passare alla regia. Con tale intento si trasferì a Los Angeles; qui ebbe modo di incontrare Roger Corman, punto di riferimento per un’intera generazione di autori. Con lui collaborò come aiuto-regista, operatore, sceneggiatore, finché Corman decise di finanziargli nel 1968 la sua opera prima, Bersagli, un omaggio all’attore Boris Karloff. Malgrado lo scarso successo, è importante perché contiene in embrione tutte le tematiche dei suoi film, in particolare il ripensamento sul cinema del passato. Iniziò il sodalizio artistico col direttore della fotografia László Kovács, che curerà la luce in quasi tutte le sue opere successive. Grande estimatore del cinema statunitense degli anni d’oro, rese omaggio a John Ford, realizzando un documentario sul vecchio regista, intitolato Diretto da John Ford (1971). Lo stesso anno diresse L’ultimo spettacolo, che lo fece conoscere al pubblico internazionale. Girato in b/n con una minuziosa ricostruzione scenografica e una ripresa dei moduli registici degli anni ’50, il film ricostruisce la provincia americana e la fine delle illusioni di un gruppo di giovani che coincide con la chiusura di una sala cinematografica. In questa pellicola, che fu candidata a otto Oscar e ne vinse due, esordì come protagonista la ventunenne Cybill Shepherd, fino ad allora modella. Fra lei e il regista nacque una relazione che portò al divorzio con Polly Platt. Già dai suoi primi lavori traspare la sua filosofia: tutti i grandi film sono già stati realizzati, e ai contemporanei non resta altro che proporre una poetica della nostalgia, rifacendo i grandi e insuperati classici degli anni quaranta e cinquanta. I suoi successivi film sono remake originali e ricercatissimi sul piano formale: Ma papà ti manda sola? (1972), una slapstick comedy, e Paper Moon – Luna di carta (1973), ispirato al cinema di Frank Capra. La rievocazione dell’America della depressione, ma soprattutto la rivisitazione dell’immagine dell’infanzia nelle commedie degli anni ’30, fecero guadagnare al film quattro candidature all’Oscar e una statuetta a Tatum O’Neal come miglior attrice non protagonista. I due film successivi videro come protagonista ancora Cybill Shepherd, ma non suscitarono entusiasmo. Il primo era una riduzione da un testo di Henry James, Daisy Miller (1974); il secondo, Finalmente arrivò l’amore (1975) fu un tipico musical anni trenta. Nel 1976 si rimise in gioco convocando nuovamente la coppia Ryan e Tatum O’Neal in Vecchia America, che risaliva alle origini del cinema hollywoodiano rievocando l’ambiente dei pionieri del cinema statunitense. Il successivo Saint Jack (1979) lanciò Ben Gazzara in un’esotica avventura a Singapore. Con …e tutti risero (1981) si cimentò con la commedia giallo-rosa, il suo genere preferito. Il film fu segnato da una tragedia. La compagna di allora e protagonista, Dorothy Stratten, fu uccisa dall’ex marito. In Dietro la maschera (1985), uno dei suoi film più riusciti, il regista affrontava con tatto il delicato tema dell’handicap. Nelle opere successive iniziò a ripetersi e dare segni di esaurimento della vena creativa: Illegalmente tuo (1988), Texasville (1990), Rumori fuori scena (1992), Quella cosa chiamata amore (1993). Tornò poi a recitare nella pluripremiata serie televisiva de I Soprano, interpretando il ruolo del dottor Kupferberg, l’analista della dott.ssa Melfi. È morto a Los Angeles per complicazioni della malattia di Parkinson.
1.Jean Luc Godard (Parigi, 3 dicembre 1930 – Rolle, 13 settembre 2022) è stato un regista, sceneggiatore, montatore e critico cinematografico francese con cittadinanza svizzera. Fra i principali esponenti della Nouvelle Vague, è stato punto di riferimento per i giovani cineasti degli anni Sessanta, rappresentando un segno di demarcazione fra culture della storia del cinema. Un ruolo conquistato con l’originalità delle sue opere, ma anche con una ricerca che lo ha visto sempre in posizioni di avanguardia, capace di rinnovarsi costantemente insieme alla società e alle tecnologie audiovisive, restando fedele a un’idea di cinema forte e senza compromessi. Nel corso della sua carriera ha vinto numerosi premi, tra cui l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 1965 con Agente Lemmy Caution ‒ Missione Alphaville e, dopo il Leone d’oro alla carriera nel 1982, il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1983 con Prénom Carmen. Nato in una famiglia dell’alta borghesia, dopo un’adolescenza ribelle, si accostò al cinema alla fine degli anni 40 frequentando la cineteca con un gruppo di amici (Truffaut, Rohmer, Rivette ecc.) che costituì il nucleo originario della futura Nouvelle vague. Con essi nel 1951 iniziò a collaborare ai “Cahiers du cinéma”, proponendo una scrittura critica attenta alle ragioni estetiche e morali del cinema, specie in quella valorizzazione di alcuni registi, anche minori, poi definita politique des auteurs. Intanto faceva i suoi primi esperimenti di regia, finché con Fino all’ultimo respiro (1960) realizzò il suo primo lungometraggio, che procede per trovate visive e gestuali, citazioni pittoriche e letterarie, senza dimenticare i miti e i modelli del passato. Il film suscitò molte discussioni, ma il suo successo aprì al giovane regista grandi possibilità che sfruttò realizzando per tutti gli anni 60 una media di due lungometraggi all’anno oltre a numerosi episodi per film collettivi. Il suo modo di girare era basato sulla rapidità, su sceneggiature appena abbozzate che lasciavano il primato alla ripresa e alle circostanze offerte dal caso e dalla personalità degli attori. I temi erano politico-sociali: gli echi della guerra d’Algeria (Le petit soldat, 1960, uscito nel 1963 per problemi di censura), la condizione della donna e dei giovani (1962, Questa è la mia vita; 1964, Una donna sposata; 1966, Il maschio e la femmina; 1967, Due o tre cose che so di lei); ma con sconfinamenti in ogni direzione: dalla commedia brillante (1961, La donna è donna) all’apologo favolistico (Les carabiniers, 1963), dall’adattamento letterario (1963, Il disprezzo, dal romanzo di Moravia) alla variazione sui generi classici, quali la fantascienza (Alphaville) o il film noir (1967, Una storia americana). Al di là dei soggetti e delle ambientazioni, erano il linguaggio e le forme narrative sempre più libere (interruzioni del racconto con scritte e inserti eterogenei, alternanza di inquadrature costruite e di scene casuali e improvvisate, riferimenti all’attualità, al mondo del cinema e dell’immagine) a farne degli esemplari film-saggio sul disorientamento e la confusione di valori della condizione moderna. Sintesi e capolavoro di questo primo periodo può essere considerato Il bandito delle undici (1965): un nichilista e caleidoscopico inno alla libertà e ai sentimenti intrecciato con digressioni che spaziano dalla politica alla pittura alla letteratura, ponendo però sempre la natura del cinema al centro della ricerca dell’autore. Nella seconda metà del decennio i temi affrontati dal regista diventarono sempre più politici e film come l’anarchico-surrealista Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (1967) o il marxista-utopista La cinese (1967, che vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia) sembrano prefigurare la rivolta studentesca del maggio 1968, cui partecipò attivamente. Questa ricerca, radicale e autocritica, lo condusse a ideare dapprima opere ribellistiche e in seguito film militanti politicamente molto controllati, firmati con il nome collettivo di Gruppo Dziga Vertov, ma segnati dalla sua inconfondibile cifra stilistica. Dopo un periodo di riflessione, ritornò al cinema a metà degli anni 70 confrontandosi con le nuove tecnologie elettroniche e fondando un nuovo gruppo, Sonimage. Vennero così alla luce il film-video Numéro deux (1975) e due lunghi programmi televisivi in cui, abbandonando il primato della politica, si riscoprivano i temi del lavoro e della vita privata in incontri e dialoghi intrecciati con riflessioni sulla natura del mezzo e dell’immagine. Ma il mezzo elettronico servì anche per appunti da utilizzare nei film che realizzò in seguito, quando si trasferì in Svizzera con la nuova compagna Anne-Marie Miéville e iniziò una nuova fase della sua attività, tesa a una ricerca di purezza ed essenzialità dell’immagine. Risalgono a questo periodo film come Passion (1982); Prénom Carmen, e Je vous salue, Marie (1984). Oltre ai grandi temi ha continuato a coltivare nostalgicamente il ‘piccolo’ cinema dei generi, come si vede in Détective (1985). Considerandosi un utopista si è anche rappresentato ironicamente, in una sua liberissima versione di King Lear (1987) come un povero sciocco che crede ancora nel cinema e nella sua essenza. In Nouvelle vague (1990) ha tuttavia dimostrato di voler andare oltre la rievocazione nostalgica del passato e di voler approfondire la sua ricerca sul cinema, le sue strutture narrative, in una sinfonia di immagini e di citazioni di grande sapienza visiva e sonora. Gli anni Novanta lo hanno indotto a riflettere nuovamente sulla storia e sul presente in film come Allemagne année 90 neuf zéro (1992) bizzarro viaggio mentale nella cultura tedesca, mentre For ever Mozart (1996) ha sullo sfondo la guerra in Bosnia e riprende due motivi che hanno accompagnato la produzione più recente dell’autore, quello delle difficoltà di un regista nel realizzare un film e quello del ruolo dell’artista nella società. Nel frattempo ha sviluppato una sua ‘storia del cinema’ che è una riflessione sul 20° sec. composta attraverso assemblaggi e citazioni visive e sonore, racconti e provocazioni, nostalgie e dichiarazioni d’amore. Le Histoire(s) du cinéma (1988-1998) risultano così una sintesi di sapere cinematografico e sensibilità storica e politica unica.